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La «Laudato si’» e il grembiule della speranza

I tanti cammini avviati sulla scia della pubblicazione dell’encliclica

Per la cura della casa comune

A cinque anni dalla sua pubblicazione, l’enciclica Laudato si’ continua a sorprendere. E non solo per le riflessioni, per la profondità dell’analisi, per le proposte che offre o per lo sguardo contemplativo che rilancia. Essa sorprende soprattutto per i cammini che ha iniziato. C’è un movimento di pensiero, una serie di scelte economiche e sociali che si sono intraprese e che fanno ben sperare. Attua il principio secondo cui «il tempo è superiore allo spazio»: è più importante cioè innescare processi piuttosto che occupare spazi di autocelebrazione. La Laudato si’ ci sta abituando a questa logica feconda.
È un’enciclica che mette in cammino. Fa camminare il pensiero umano alla ricerca di una antropologia che non sia semplice sfruttamento delle risorse, dove l’uomo si pensa come despota.
Fa camminare la società per mettersi in ascolto del grido dei poveri che si eleva da ogni parte della terra, perché la crisi ambientale è spesso associata a quella relazionale; la violenza verso la natura ha esiti violenti nei rapporti tra i popoli.
Fa camminare l’economia alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo che non si incentri sull’esclusivo profitto, ma sulla qualità della vita umana.
Fa camminare la tecnologia, che non può pensarsi come la panacea di tutti i mali, ma deve sentirsi in dialogo con l’etica e con le grandi domande del cuore dell’uomo.
Fa camminare la politica perché non diventi gestione del potere fine a se stesso, ma si metta a servizio della capacità di giungere preparati agli appuntamenti decisivi con la storia. C’è bisogno di cultura della cura che si faccia carico del futuro del pianeta e della possibilità di custodire la vita in un’epoca di cambiamenti climatici così repentini e devastanti.
Fa camminare anche la Chiesa che nel recente sinodo amazzonico ha ripensato ai modelli relazionali e ai ministeri pastorali con cui servire le comunità cristiane. Querida Amazonia ne rappresenta il frutto maturo.
Il pensiero della Laudato si’ genera movimento. Dà gambe alla speranza ed è forse inutile dire quanto ciò abbia valore in tempo di crisi pandemica. Papa Francesco suona melodie di speranza quando scrive che «non tutto è perduto, perché gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi, al di là di qualsiasi condizionamento psicologico e sociale che venga loro imposto. Sono capaci di guardare a se stessi con onestà, di far emergere il proprio disgusto e di intraprendere nuove strade verso la vera libertà» (Ls 205). Non è musica orecchiabile quando regna il pessimismo e la lamentela. Un lettore attento sa bene che l’enciclica non lesina critiche all’attuale modello di sviluppo e all’antropocentrismo dispotico, causa della crisi ecologica. Il primo capitolo è un’analisi approfondita della situazione. Tuttavia, il filo rosso dell’incoraggiamento a cambiare rotta trapela di continuo. Quasi che Francesco assuma i panni dell’allenatore di una squadra, la famiglia umana, che sembra aver perso con gli schemi di gioco anche le motivazioni che danno anima al proprio stare in campo. Tre esempi lo dimostrano.
Il primo è quello di favorire il protagonismo dei giovani. L’enciclica mette in guardia dalla tentazione di trascurarli: l’«incapacità di pensare seriamente alle future generazioni è legata alla nostra incapacità di ampliare l’orizzonte delle nostre preoccupazioni e pensare a quanti rimangono esclusi dallo sviluppo» (Ls 162). Occorre ascolto perché i giovani chiedono di trasformare paradigmi fallimentari e di ripensare modelli economici che uccidono. Il tema educativo è centrale: si tratta di formare coscienze appassionate e capaci di mettersi in gioco per il bene degli uomini e della creazione.
Il secondo esempio è dato dall’esigenza di leggere i segni dei tempi, che invocano capacità di dialogo. L’enciclica rivolge un appello a tutti gli uomini di buona volontà perché mettano insieme le loro competenze, i loro sforzi e le loro ricerche per contribuire alla soluzione dei problemi in corso. La Chiesa stessa adotta lo stile del dialogo tra le coscienze per ricercare la verità morale in campo ecologico: «Su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando le diversità di opinione» (Ls 61).
Il terzo caso fa comprendere come la speranza spinga alla responsabilità di tutti. Non è un generico «andrà tutto bene!», come se bastasse lasciar scorrere il tempo e i problemi si risolvono da sé. La speranza cristiana è virtù teologale: ciò significa che è dono di Dio. Non coincide con il semplice augurio di bene. È qualcosa di più. Uno dei grandi filosofi francesi del Novecento, Gabriel Marcel, sostiene che la speranza coincide con l’affermazione «Io spero in te per noi». La speranza cioè apre gli occhi sul volto dell’altro, ne valorizza l’unicità e ne riconosce un dono per tutti. Così da una generica fiducia nel meglio, la speranza indossa gli abiti dell’umanità che si mette in gioco. Dà fiducia. Responsabilizza. Sostiene l’altro. Prega per lui. Tifa per lui. Gli mette a disposizione il meglio perché possa rialzarsi. Fa di tutto perché non soccomba. Lo prende per mano.
E quando il fratello o la sorella si rialza, è il bene comune a guadagnarne. Il «noi» si rafforza. Un bimbo che nasce è un sorriso alla vita di tutti. La tutela di un paesaggio è risorsa per il mondo. La biodiversità delle foreste è polmone universale. Una cooperativa che riprende è un segno per l’umanità. Un’impresa sostenibile è un valore aggiunto per il territorio. Una famiglia che si ritrova a tavola è quanto di più ecologico antispreco si possa immaginare. La riduzione dei rifiuti è scelta politica in favore della società. Il voto con il portafoglio, che premia modelli virtuosi capaci di promuovere il lavoro e l’ambiente, è azione economica trasformatrice. L’ecologia integrale è un progetto di vita sociale e non un’astrazione per addetti ai lavori.
Eccola, dunque, la speranza cristiana. La si riconosce in azione dentro alle iniziative che la Laudato si’ ha generato. La speranza ha spinto Pietro a dire allo storpio che chiedeva l’elemosina alla porta Bella del tempio di Gerusalemme: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina» (At 3, 6). La presenza dello Spirito di Dio rimette in piedi e ritempra per il cammino. Oggi la medesima virtù spinge Papa Francesco a suggerire che «la speranza ci invita a riconoscere che c’è sempre una via di uscita, che possiamo sempre cambiare rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi» (Ls 61). Come a dire: è sempre possibile rialzarsi, anche davanti alla crisi odierna, che è insieme pandemica, ecologica e sociale!
Così funziona la speranza anche per i grandi problemi dell’umanità. I cambiamenti climatici verranno contenuti non grazie al super-eroe o al super-scienziato o al super-politico, ma a persone in grado di declinare nel quotidiano l’intuizione: «Io spero in te per noi». La speranza riveste di responsabilità ogni uomo e, a cascata, ne beneficiano dall’Australia al Canada: non sopporta la ricerca di capri espiatori né l’indifferenza globale. Si veste da sorellina che prende per mano — secondo l’immagine di Charles Péguy — e si coinvolge. Forse la migliore descrizione ce la offre la poesia di Wisława Szymborska, che racconta i suoi sentimenti dopo aver contemplato al museo di Amsterdam il dipinto Lattaia di Jan Vermeer:
«Finché quella donna del Rijksmuseum / nel silenzio dipinto e in raccoglimento / giorno dopo giorno versa / il latte dalla brocca nella scodella, / il Mondo non merita / la fine del mondo».
La speranza indossa un semplice grembiule e sa abitare i gesti quotidiani della cura. È alla portata di tutti. La Chiesa, con la Laudato si’, l’ha rivestita a puntino al servizio dell’umanità. Da brava stilista.
Bruno Bignami

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