«Mi trovo ancora in Ospedale, in questo luogo di sofferenza e di speranza, luogo di grande sollecitudine per i malati, luogo di vita. Vorrei da qui rivolgere anzitutto un saluto a quanti soffrono nel corpo e nello spirito ed a coloro che sono al servizio dei malati: medici ed infermieri, personale sanitario ed ausiliario».
Così, Giovanni Paolo II esordì nel discorso dell’Angelus del 13 ottobre 1996, che concluse scherzosamente definendo il luogo in cui era ricoverato: «”Vaticano numero tre”, perché il “Vaticano numero uno” è Piazza San Pietro, il numero due è Castel Gandolfo, il numero tre è diventato il Policlinico Gemelli». In effetti, dal 13 maggio 1981, giorno dell’attentato, fino al termine del suo cammino terreno, Papa Wojtyla ha vissuto per dieci volte la necessità di dipendere dalle cure dei medici dell’ospedale vaticano.
Aveva già un’esperienza di 89 giorni di ospedale, fra Cracovia e Roma, il Pontefice quando ha effettuato la sua visita pastorale a San Giovanni Rotondo, dove sconvolse i programmi stabiliti decidendo di visitare, uno per uno, tutti i reparti di Casa Sollievo della Sofferenza. In questa circostanza, il 23 maggio 1987, al personale dell’ospedale fondato da Padre Pio, non si limitò a rivolgere un semplice «saluto»:
«La grande intuizione di padre Pio è stata quella di unire la scienza a servizio degli ammalati insieme con la fede e la preghiera: la scienza medica, nella lotta sempre più progredita contro la malattia; la fede e la preghiera, nel trasfigurare e sublimare quella sofferenza che, nonostante tutti i progressi della medicina, resterà sempre, in certa misura, un retaggio della vita di quaggiù.
Per questo, un aspetto essenziale del grande disegno di padre Pio, era ed è che la degenza in questa Casa deve poter costituire sì una cura del corpo, ma anche una vera e propria educazione all’amore inteso come accettazione cristiana del dolore. E ciò deve poter avvenire soprattutto grazie alla testimonianza di carità offerta dal personale medico, paramedico e sacerdotale che assiste e cura i malati. In tal modo, si deve formare una vera e propria comunità fondata sull’amore di Cristo: una comunità che affratella coloro che curano e coloro che sono curati».
Un messaggio diretto non solo ai presenti, ma tutti «coloro che sono al servizio dei malati», visto che Giovanni Paolo II ha invitato il personale di Casa Sollievo della Sofferenza a diventare un modello per i loro colleghi:
“La vostra testimonianza, cari medici, cari infermieri, cari sacerdoti, è estremamente preziosa non solo per coloro che qui vengono ricoverati, ma è un segno importante anche per tutta la Chiesa e per la società”.
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