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“Wojtyla, quelle carezze con Madre Teresa e la sofferenza di non poter più prendere in braccio i bambini”

Nel centenario della nascita di Giovanni Paolo II, il racconto dell’amico fotografo Arturo Mari, al suo fianco per l’intero pontificato.




«Karol Wojtyla amava davvero la gente, in lui non c’era mai finzione, era tutto spontaneo. Dell’infermità lo faceva soffrire soprattutto l’impossibilità di abbracciare le persone e di prendere in braccio i bambini - racconta Arturo Mari, amico e confidente di Karol Wojtyla, per oltre mezzo secolo fotografo all’Osservatore Romano. «Era un uomo di Dio e per me è stato un padre e un amico indimenticabile».

Udienze, viaggi apostolici e ogni giorno dall’alba a notte fonda a disposizione di San Giovanni Paolo II. Quando è iniziata la vostra amicizia?
«Cominciò tutto al Concilio. Era vescovo ausiliare, uno dei più giovani partecipanti all’assise episcopale. Mi colpì subito la sua giovialità e la semplicità con le quali parlava di questioni colossali come la guerra fredda. Ero un ragazzo e mi incuriosiva ciò che accadeva dall’altra parte della cortina di ferro. Discutevamo di tutto, anche di cose intime, con la schiettezza di un confronto autentico. E così lì al Vaticano II sbocciò un’amicizia durata fino all’ultimo istante, quando mi fece avvicinare al suo letto e mi disse “Arturo, grazie” nell’ultimo giorno della sua vita». 

Chi è stato per lei Karol Wojtyla?
«Un padre che ha guidato un figlio senza il bisogno di dare consigli. Era un uomo fenomenale. È avvenuto tutto naturalmente. La promozione da ausiliare ad arcivescovo e cardinale di Cracovia, poi l’elezione al Soglio Pontificio. Lui è rimasto sempre lo stesso Karol, nessun cambiamento né come uomo né come amico».

Qual è il suo tratto umano che lo caratterizza maggiormente?
«Aveva una modestia, una semplicità naturale, un amore per il prossimo che trasparivano in ogni suo gesto, in ogni colloquio. Trasmetteva una tranquillità che non mi ha mai abbandonato. Mi ha preso per mano e mi ha condotto come fa un padre con il figlio. Un pensiero, un problema a casa o sul lavoro: non c’era nulla che non si rasserenava nel dialogo con lui. Era sempre un riferimento costante. In qualunque scambio di idee non eravamo il Papa e il suo fotografo, ma Karol e Arturo come all’inizio degli anni Sessanta».

Un’amicizia che si è estesa alla sua famiglia…
«La vocazione sacerdotale di mio figlio Giancarlo è maturata spontaneamente così, in questo clima sereno. Erano gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo e un giorno mi disse: “Ciao papà, io vado, entro in seminario”. Da seminarista proseguì tutto normalmente, ci furono incontri con il Papa in Vaticano e a Castel Gandolfo».

Cosa è cambiato con la malattia?
«La salute gli dava gravi problemi, come persona inferma soffriva, ma non l’ho mai sentito lamentarsi. Anche durante le udienze gli chiedevo: “Stai bene?” e lui rispondeva sempre di sì. A volte faceva solo un cenno e io gli dicevo “You are a strong man”, “Sei un uomo forte”. Quando pregava, poi, sembrava uscire dal mondo».

Cosa le diceva dei cambiamenti storici dei quali è stato protagonista?
«Vedeva la storia voltare pagina sotto i suoi occhi. La cortina di ferro di cui parlavamo al Concilio si era dissolta, il muro di Berlino era crollato. Sentiva il mondo cambiare con lui. È stato un guerriero, ha combattuto tanto. Era un santo vivente. Lo vedevi che viveva tra terra e cielo. Quando stava in mezzo alla gente si illuminava di tenerezza. Aveva un amore fortissimo per le persone, prendeva in braccio i bambini, accarezzava i volti dei fedeli con tenerezza paterna. Era una poesia vedere il suo slancio verso il prossimo. Nulla era artefatto, tutto avveniva come era nella sua indole».

Oltre a quelli più intimi e privati, quali sono i momenti che le sono rimasti più impressi?
«Il trauma indescrivibile dell’attentato. A piazza San Pietro ero a un braccio di distanza da Giovanni Paolo II. È caduto sotto il mio sguardo, ancora oggi non so come ho trovato la forza di continuare a scattare foto. Uno snodo della storia universale accadeva davanti ai miei occhi e sentivo una valanga travolgermi. Nella mia mente, poi, ci sono migliaia di momenti straordinariamente belli, come il tempo che trascorreva con Madre Teresa. Giocava con lei, scherzavano e li univa un affetto particolarissimo. Avevano espressioni e modi di venerazione reciproca. Si aiutavano teneramente tra loro. Lei lo chiamava “Holy Father”, lui la accarezzava sul viso come si fa tra familiari e la baciava sulla fronte. Era un moto fresco e genuino di amore che veniva fuori all’improvviso tra loro e un rispetto profondissimo li accomunava. Ora me li immagino così in Paradiso, con la stessa sorridente santità dei loro incontri al Palazzo Apostolico».

È stato definito il Papa “globetrotter”. Quali sono stati per lei i viaggi più coinvolgenti?
«Ci sono luoghi speciali nei quali Karol Wojtyla ha espresso più marcatamente la sua straripante umanità. Ma tutti i suoi viaggi sono stati meravigliosi. Mi commuove ricordare l’intenso pellegrinaggio mariano a Czestochova per l’omaggio alla Madonna di cui era devotissimo. Ovunque andasse nel mondo la bellezza di ogni sua visita andava ricercata nel contatto con la gente. L’emozione individuale e collettiva di quelle Messe celebrate in posti sconfinati, con milioni di persone, come a Manila».

Una pastorale della prossimità che richiama quella di Francesco, il Papa che lo ha canonizzato?
«Sì. Karol Wojtyla e Jorge Mario Bergoglio hanno la stessa dedizione alla gente, lo stesso dialogo con i giovani. Ho seguito tutti i Pontefici da Giovanni XXIII in poi e apprezzo moltissimo come Francesco svolge la sua missione. Lavora tanto, ha fatto tesoro di quello che ha sperimentato all’inizio del suo pontificato. I buoni risultati adesso si vedono e la Chiesa universale ne raccoglie i frutti. Un legame senza filtri con il popolo di Dio. Pastore e gregge uniti nella condivisione».

A quali fotografie è più affezionato?
«Mi sembra ancora di vedere davanti a me la gente che usciva per strada a salutare Giovanni Paolo II mentre camminava nei quartieri più poveri di Calcutta. Rivivo il bagno di folla e di umanità nelle favelas brasiliane: lui che entrava in casa a parlare con le famiglie, andava ad abbracciare le mamme in cucina, alzava i coperchi delle pentole, chiedeva cosa stessero cucinando, rideva e chiacchierava con tutti. Un ciclone di fraternità e affetto di cui Karol Wojtyla era il centro. È stato un uomo fuori dalla norma, un marziano, una persona veramente fuori dal comune. Un amico unico, speciale».

Giacomo GALEAZZI

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