Giovanni Paolo II è stato definito «un Papa missionario».
Tale si dimostrò fin dalla Messa di inizio del Pontificato, quando esortò il mondo ad accogliere l’annuncio evangelico con la frase, ormai storica: «Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo». Lui, per primo, ha aperto le porte della sua diocesi, quella di Roma. Ha accolto con entusiasmo il dono fattogli dalle Famiglie francescane d’Italia nel 1982, in occasione dell’VIII centenario della nascita del Santo di Assisi: una memorabile “missione al popolo” dell’Urbe. Un dono che, da vescovo della città e da pastore universale, definì «gesto profetico». Inoltre ha sempre manifestato sostegno e ammirazione nei confronti della suora che ha rappresentato e rappresenta ancora l’icona della Chiesa missionaria: Madre Teresa di Calcutta. Non solo in vita, ma anche dopo la sua morte. Riuscì a proclamarla personalmente beata, il 19 ottobre 2003, dopo aver concesso la dispensa per l’attesa dei cinque anni dalla morte, prevista prima dell’apertura della Causa. Egli stesso è stato un autentico missionario, con i suoi 104 viaggi apostolici nel mondo e le 146 visite pastorali in Italia.
A questo tema dedicò anche un’enciclica, non semplicemente una lettera apostolica, come gli veniva suggerito in Vaticano, perconfermare e aggiornare il decreto conciliare Ad gentes. La volle esprimere con uno stile «giornalistico, per i giovani e le giovani Chiese». Nella Redemtoris missio, promulgata il 7 dicembre 1990, il Pontefice riaffermò che «la Chiesa è missionaria per natura sua, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente ed esteriore, ma raggiunge il cuore stesso della Chiesa. Ne deriva che tutta la Chiesa e ciascuna Chiesa (particolare) è inviata alle genti» (n. 62). Lo ribadì perché aveva notato, e denunciò, la «tendenza negativa» a un «rallentamento» e a un indebolimento dello «slancio missionario della Chiesa verso i non cristiani» (cfr. 2). Lo ribadì anche perché era profondamente convinto della fondamentale importanza dell’evangelizzazione per la salvezza di ogni abitante della terra, in quanto «Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini […]. Gli uomini quindi non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito» (n. 5). Il testo rivelò due novità: l’indicazione a «incarnare il Vangelo nelle culture dei popoli» (cfr. 52-54) e la precisazione che «il contributo della Chiesa e della sua opera evangelizzatrice […] riguarda non soltanto il Sud del mondo, per combattervi la miseria materiale e il sottosviluppo, ma anche il Nord, che è esposto alla miseria morale e spirituale causata dal “supersviluppo”» (59).
In tal modo, l’enciclica rafforzava il concetto, più volte espressoda Papa Wojtyla, della necessità di «nuova evangelizzazione» (n. 2), divenuta la linea guida della Chiesa del terzo millennio, attenta alle metropoli, agli emigrati, ai rifugiati politici, agli extracomunitari, ai giovani, ai mass media, alla cultura e alla scienza.
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