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6. Nella Città dell’Uomo - Don Tonino, La voce della povertà, il Racconto

«Il politico vero ha misericordia del popolo e gli si fa vicino per restituirgli la “mezza vita” che gli hanno tolta e non per aggiungergli “la mezza morte” che gli manca e stenderlo definitivamente».


Nessuno può mettere in discussione l’impegno di mons. Antonio Bello per la classe politica della diocesi. La sua attività di vescovo era anche per loro, per quelle persone interessate direttamente all’amministrazione della “cosa pubblica”. «Se uno mi chiedesse a bruciapelo “dammi una definizione di quel che dovrebbero essere i politici”», affermava don Tonino, «io risponderei subito: Operatori di pace».
Ma il vescovo molfettese sapeva altrettanto bene che gli uomini politici tutt’altro possono definirsi all’infuori che operatori di pace, e perciò iniziò con loro un dibattito che sul piano dialettico fu quasi sempre acceso ed intenso.
Prese così l’abitudine di incontrarsi con loro ogni Natale, ma per la “durezza” delle sue parole ogni anno sempre meno politici frequentavano quelle riunioni a tal punto che, dopo il 1988, don Tonino preferì registrare i suoi discorsi e inviarli attraverso un nastro a ciascun politico.
Ciò lascia immaginare come il vescovo riusciva ad imporsi alla vecchia e tradizionale mentalità di intendere e fare politica, del resto lo dimostrano le parole delle sue riflessioni. «Oggi il vostro mestiere è fra i più ingrati e incompresi», dice don Tonino rivolgendosi ai politici.
E ancora, «quando si parla di voi la gente corruga la fronte, ricorre alla battuta convenzionale, si sente autorizzata dal tacito consenso generale ad avanzare giudizi pesanti e, bene che vada, l’aggettivo più innocuo che appone alla parola “politica” è quello di “sporca”».
Ma usava tonalità ancora più aspre quando analizzava da vicino la realtà politica locale, invitandola alla “sobrietà comunitaria”. «I partiti si sono ubriacati», diceva, «non è più lo stato sociale, ma lo stato dei partiti. È urgente che i partiti si disintossichino dall’ubriacatura». E rivolgendosi direttamente ai politici, don Tonino domandava così: «Chi state servendo il bene comune o la carriera personale? Il popolo o lo stemma? Il municipio o la sezione? Il tricolore o la bandiera del partito? Un giorno il Signore vi chiederà conto se lo spirito che ha animato il vostro impegno politico è stato quello del servizio o quello del self-service».
Non era sua intenzione però scoraggiare gli operatori della p0litica, anzi! Spiegava le sue comprensioni innanzi al loro scoraggiamento, e diceva che la politica è un’arte nobile e difficile, è un mestiere ingrato e incompreso; e a quanti travisavano le sue parole, don Tonino replicava che tra i tanti suoi doveri c’era pure quello di fornire «una manciata di provocazioni».
Si ritrovava bene nei panni del profeta, ma non aveva alcuna intenzione di intromettersi nelle questioni squisitamente politiche. Più volte lo aveva ribadito che la distinzione di ruoli era a lui chiarissima. «Alle istituzioni tocca il compito di reggere, il compito dei reggitori, del re», affermava don Tonino, «e al vescovo tocca il compito del profeta. Non si può allora sopprimere il ruolo del governatore, di chi comanda, il ruolo di chi governa è un ruolo difficile, come difficile è il ruolo del profeta. Non è facile perché chi governa viene preso di mira dalle critiche della gente, chi fa il profeta viene preso di mira dal sorriso del benpensante. Il re ha il suo compito e il profeta ne ha un altro. Ma insieme devono provocare la crescita della città».
Don Tonino non simpatizzava per nessun partito politico e chiunque, politico o no, non può dire di essergli stato particolarmente vicino ideologicamente. Il vescovo molfettese aderiva soltanto al Vangelo, e il suo leader era Gesù Cristo.
Per lui inoltre non esisteva nemmeno una politica cristiana, «c’era un modo cristiano di fare politica», ed era altresì convinto che «il consenso politico non si può esigere nel nome della fede, per cui in politica i cristiani devono ottenere il consenso non nel nome di Gesù Cristo ma nel nome del programma valido, della loro coerenza, della loro onestà…».
Ciò vuol dire che per lui qualsiasi partito andava bene purché realizzasse una politica giusta. E per politica giusta intendeva il raggiungimento di una “pietà comunitaria”. «Adoperatevi, vi supplico», diceva don Tonino, «perché migliori la qualità della vita nelle nostre città. Un politico, che disdegni la “prossimità” e si chiuda nell’alterigia aristocratica della sua funzione, non è degno di questo nome. Il politico vero ha misericordia del popolo e gli si fa vicino per restituirgli la “mezza vita” che gli hanno tolta e non per aggiungergli “la mezza morte” che gli manca e stenderlo definitivamente. Mettete più spirito di sacrificio per arginare i guasti di tanta disoccupazione giovanile. La siringa trovata in villa deve fare impallidire la giunta comunale più dei liquami di una fognatura fuoriusciti in piazza durante una cerimonia ufficiale. Impegnatevi perché ogni scelta politica tenga sempre presenti gli ultimi».
Sempre loro, gli ultimi, i poveri! Già, perché don Tonino riteneva che costruire l’uomo vale infinitamente di più che costruirgli la casa, e perciò intendeva sollecitare continuamente la classe politica perché, diceva, «noi abbiamo il compito di collaborare affinché la città esca dalla rete in cui si trova prigioniera. Il vescovo ha il compito di rompere qualche maglia della rete perché si esca fuori. Non dovete aspettarvi mai che annuncia la Parola di Dio, sia sempre condiscendente, sia ovattato nel suo linguaggio, temperi i suoi bollori. C’è sempre un po’ di frattura. Il vescovo ha il compito di lacerare qualche maglia della rete perché tutti escano fuori dalla rete in cui certe volte rimaniamo prigionieri».
Il compito, però, di ricostruire l’uomo e la sua città non spetta soltanto alla classe politica, don Tonino era consapevole di questo, e per lui soprattutto la Chiesa «deve andare in città», deve cioè «riversarsi nelle strade come dice il Vangelo e chiamare ciechi, storpi, sordi, per invitarli tutti al banchetto del Regno».
Ma per questo occorre una Chiesa che adoperi la povertà come metodo. E qui, in questa ottica don Tonino impegnò gran parte della sua vita e del suo magistero episcopale per additare un rinnovamento, un profondo cambiamento all’interno della stessa Chiesa. Per lui bastava una Chiesa «sicura solo del suo Signore e per il resto debole. Una Chiesa che mangia il pane amaro del mondo, una Chiesa povera, semplice, mite, che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza».
E ancora, «se la Chiesa, sacerdoti, vescovo mettono nel circuito della città questi stimoli di rinnovamento la Città si avvantaggerà. Molfetta in modo particolare perché è una città fiorente, splendida, bella non soltanto per le sue caratteristiche più alte di cultura, ma anche per la bontà della gente. Molfetta merita e mi auguro di poter spendere per essa fino all’ultimo spicciolo la mia salute».
Parole dure ma vere. E proprio perché vere non furono gradite da chi, invece, era più incline al «conformismo passivo e al potere egemonico della Chiesa». Partire dagli ultimi, insomma, era il programma che Chiesa ed istituzioni politiche dovevano adottare per costruire l’uomo e la sua città. E quando ciò non avviene può succedere che ogni desiderio umano, anche il più contorto, generi una crisi di cuori.
(continua)

La presente biografia è stata pubblicata a puntate sul periodico l'altra Molfetta, da dicembre 1995 a novembre 1996. Successivamente i testi, ampliati e approfonditi dallo stesso autore, sono stati pubblicati (con una ricca documentazione fotografica) in volume edito da Luce e Vita nella Collana Quaderni.


Sergio Magarelli

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