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Sette anni di Papa Francesco, l’anniversario in mezzo alla pandemia. Ma lui continua a lavorare. E a essere vicino alla gente

Tagle: il suo atteggiamento semplice modella la storia. Ravasi: attraverso un dialogo con Bergoglio Giobbe, “primo e ultimo vagito di ogni anima”, entrò in Conclave.

13 marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio è il nuovo Papa. Ha scelto di chiamarsi Francesco

Tra un forte raffreddore e l’epidemia di Coronavirus che mette in ginocchio gran parte del Pianeta, Jorge Mario Bergoglio non si ferma. Neanche un giorno. Nemmeno per festeggiare i sette anni di pontificato. Circondato da una sorta di «cordone di sicurezza» necessario in mezzo alla pandemia, papa Francesco continua a lavorare. E a essere vicino alla gente, in particolare quella che soffre. Nei giorni del Covid-19, oltre a recitare l’Angelus e a tenere l’udienza generale «ingabbiato» nella Biblioteca del Palazzo apostolico in diretta streaming, ha voluto «sdoganare» le messe a Casa Santa Marta. Le omelia di papa Francesco sono un simbolo del pontificato: sono state determinanti nel creare e alimentare la simpatia, l’empatia e l’attenzione planetaria per il Pontefice argentino. Con la loro semplicità, immediatezza e schiettezza, raggiungono il vissuto quotidiano, e anche il cuore, delle persone. Credenti e non, vicine e lontane. Ai potenti ricorda le loro responsabilità. Ai deboli esprime particolare affetto, solidarietà e forza. Le parole del Pontefice nella Domus Sanctae Marthae toccano le corde fondamentali e fondanti dell’animo umano: sentimenti, emozioni, paure, fragilità, nervi scoperti. La gioia come il mistero della sofferenza. Il senso della vita. Le predicazioni di papa Francesco incoraggiano, ammoniscono, rimproverano. Soprattutto incoraggiano. Accompagnano nel cammino della dell’esistenza. Ecco che Francesco, in questi giorni sospesi tra incubi e preoccupazioni che accomunano tutti, vuole essere vicino, oltre che con la preghiera e con l’affidamento alla Madonna, anche con la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia nella Messa a Casa Santa Marta eccezionalmente trasmessa in diretta ogni mattina e diffusa in tutto il mondo grazie allo streaming. Così, le sue parole sono immediatamente e direttamente a disposizione. Per tutti: coloro che già ogni mattina attendevano la sintesi dell’omelia diffusa dai media vaticani; come anche per le persone che in questi giorni surreali hanno bisogno di conforto, di sostegno spirituale, di aggrapparsi alla fede che il Successore di San Pietro custodisce e trasmette, con gioia e speranza. Con quel suo calore umano da «parroco dell’umanità».

Obbediente alla volontà di Dio, come ha sottolineato in un’intervista a L’Osservatore Romano il cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Tra i vari ricordi «del 13 marzo 2013 - racconta il porporato filippino - ne vorrei raccontare due». Innanzitutto, quando Bergoglio «ha ottenuto il numero di voti richiesti per essere eletto Papa, tra i cardinali sono scoppiati gioia, applausi e lodi a Dio, che ancora una volta ci assicurava che non avrebbe abbandonato la sua Chiesa». Ma quando Tagle guarda Bergoglio, vede che «stava seduto con la testa china. La mia esuberanza all'improvviso si è trasformata in pathos - rammenta - Nella postura china del nuovo Papa percepivo il peso dell'obbedienza, l'inchinarsi alla misteriosa volontà di Dio». Tagle percepiva in quegli attimi eterni «anche il bisogno di inchinarsi in preghiera, un atto di fiducia in Dio, che è il vero Pastore della Chiesa». Poi, quando «ci siamo uniti a Papa Francesco per salutare la folla riunita in piazza San Pietro, mi sono reso conto che ogni nuovo Pontefice è un dono che Dio “svelerà” lentamente nel corso degli anni del suo ministero papale, una promessa che Dio adempirà dinanzi al suo popolo». 

Tagle, a parte «la ricchezza dell'insegnamento e di gesti che abbiamo ricevuto da Papa Francesco in questi ultimi sette anni», si rallegra «per le lezioni che mi ha impartito il suo esempio, specialmente come pastore a Manila: prestare attenzione alle singole persone in mezzo a grandi folle, mantenere il contatto personale in mezzo a una grande organizzazione, o “burocrazia” ecclesiastica, accettare i propri limiti e la necessità di avere collaboratori in mezzo ad attese “sovrumane", sapere che sei un servitore e non il Salvatore». L’ex Arcivescovo di Manila è impressionato dal «fatto che ha portato al papato la persona semplice, di humor e coscienziosa che ho sempre conosciuto. Praticamente in tutti gli incontri che ho con lui, la prima domanda che mi pone non riguarda le questioni del giorno, ma è: “come stanno i suoi genitori?”». Anche se in molti «giustamente lo considerano uno dei motori e forgiatori più influenti della storia e dell'umanità contemporanea, io vedo in lui e nelle nostre conversazioni una semplice “parabola” della vicinanza e compassione di Dio. Essendo una tale “parabola”, papa Francesco può muovere e modellare la storia». 

Il cardinale Gianfranco Ravasi non l'aveva «mai incontrato prima di quei giorni. Ne avevo sentito parlare occasionalmente e conoscevo il suo profilo vagamente. Fu soltanto in quel piovoso pomeriggio di mercoledì 13 marzo 2013 che ci trovammo casualmente insieme da soli». Così il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura rievoca sulle pagine dell'Osservatore Romano il primo incontro con il cardinale Jorge Mario Bergoglio, prima dell'elezione al Soglio Petrino. Il futuro Papa Francesco «stava attraversando la sontuosa Sala Ducale con la sua scenografia barocca: fu lì che ci incrociammo e ci fermammo a parlare, procedendo e passeggiando poi nella successiva imponente Sala Regia». Da lì «saremmo entrati nella Cappella Sistina, ove insieme agli altri cardinali elettori partecipavamo al Conclave». Ravasi racconta che fu Bergoglio «a rievocare il filo personale che ci univa e che era per me ignoto. L'incontro implicito - prosegue - era avvenuto proprio a Buenos Aires attraverso le mie pubblicazioni, due in particolare, un “duplice commento” al lezionario domenicale e soprattutto il vasto commentario che nel 1979 avevo elaborato su uno dei libri più sconvolgenti e misteriosi della Bibbia, quello di Giobbe». Quasi mille pagine, dedicate alle 8.343 parole ebraiche di quel poema, «al suo linguaggio rovente e soprattutto al suo enigmatico significato ultimo, non riducibile certo alla “pazienza" tradizionalmente assegnata al protagonista, né al puro e semplice scandalo della sofferenza». Questa divagazione su uno dei testi più celebri dell'Antico Testamento, «anche a livello culturale oltre che popolare (Giobbe, come san Rocco, fu il protettore di malati infetti e, quindi, si potrebbe affacciare anche nei giorni attuali del coronavirus), fa già intuire l'interesse e la sintonia tematica dell'allora arcivescovo argentino». Il Gesuita argentino aveva tenuto un intero corso su quest'opera «così alta, drammatica e teologica, capace di dare voce al respiro di dolore che sale incessantemente dalla terra al cielo e pronta persino a denunciare processualmente Dio». Nel suo percorso in quelle pagine così roventi «Bergoglio riconosceva di aver avuto come compagno di viaggio proprio il mio commento e, quindi, indirettamente anche me, senza che ci fosse stato un incontro esplicito».

Riguardo al «settenario di anni del suo pontificato la mia è una piccola e marginale attestazione. Col nostro dialogo, Giobbe - conclude - in quelle ore decisive nella storia della Chiesa, era anche lui idealmente entrato in Conclave». Ne è poi uscito «con la voce - più pacata e con tonalità minore, ma con altrettanta carica interiore - di Papa Francesco. Egli è consapevole - come scriveva (nella folla degli autori che nei secoli hanno ricreato questa figura biblica) il poeta francese Lamartine - che "quella di Giobbe non è la voce di un uomo ma è la voce di un tempo, è il primo e ultimo vagito dell'anima, anzi, di ogni anima”».

DOMENICO AGASSO JR
FONTE: VATICAN INSIDER



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