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Restiamo credenti. Facciamo spazio alla preghiera

Nella comune battaglia contro il virus ciascuno deve fare la sua parte. I medici combattono nelle corsie, i sacerdoti assistono i malati e confortano quanti vivono nella paura, i docenti continuano la loro opera, i genitori insegnano ai figli a combattere la paura. Tutti chiamati alle armi. Ma qual è il compito dei cristiani?

                           

“Io resto a casa”: uno slogan ripetuto da tutti fino alla noia, anche negli ambienti ecclesiali. Si vede che non sappiamo inventare altre parole capaci di esprimere la bellezza della fede. A ben vedere, è uno slogan disarmante, nel senso letterale. Ci viene chiesto di non fare nulla e di lasciar lavorare gli altri. La casa appare solo come un rifugio in attesa che passi la tempesta. Noi invece vogliamo partecipare, come cittadini e soprattutto come credenti. Non vogliamo intralciare il traffico ma neppure essere semplici spettatori. 

Questo tempo rappresenta per noi una sfida perché ci costringe a misurare l’autenticità della fede. Questo accade ogni volta che la sofferenza bussa alla porta. A maggior ragione in una situazione che si presenta come un dramma collettivo che getta tanti nell’angoscia ed è per tutti fonte di inquietudine. Un credente non si limita alla cronaca ma legge in questo evento un silenzioso appello alla fede. In effetti, è proprio la tempesta che ci costringe a uscire allo scoperto. Lo aveva detto papa Francesco all’inizio del suo pontificato: “Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”. Ci siamo! È giunto il momento di scendere in campo per testimoniare la presenza amorevole di un Dio che abbraccia tutti e non abbandona nessuno. 

Sono tante le cose da fare e ciascuno, da credente, farà la sua parte. I medici che combattono nelle corsie, i sacerdoti che assistono i malati e confortano quanti vivono nella paura, i docenti che continuano la loro opera, i genitori che insegnano ai figli a combattere non solo il virus ma quel male che tante volte s’intrufola senza farsi notare. Tutti chiamati alle armi e tutti devono fare la propria parte senza sconti.

In questa comune battaglia non possiamo sottovalutare la preghiera, anzi un credente sa bene che è proprio questo il punto di partenza perché fortifica l’alleanza tra l’uomo e Dio. Chi crede ripete le parole del salmista: “Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura”. Questo tempo di eccezionale gravità chiama in causa la responsabilità morale e sociale di tutti e chiede un surplus di impegno e fatica. Noi credenti, però, sappiamo che la parte dell’uomo sarà tanto più efficace quanto più sarà vissuta in stretta collaborazione con quella di Dio. I cristiani sono i testimoni qualificati di questa alleanza. La nostra responsabilità è ben più ampia di quella che tutti i cittadini devono assumere per contribuire al bene comune.

In un tempo come questo la preghiera deve essere ancora più ardente e fiduciosa, una vera e propria supplica rivolta a Colui che ci ama e può salvare la nostra vita. “Chi si potrà salvare?”, chiedono i discepoli. E Gesù risponde che “tutto è possibile a Dio”. In realtà, la domanda dei discepoli è sbagliata, chiedendo chi si potrà salvare, essi pongono l’accento sulle capacità dell’uomo. Gesù invece risponde che Dio solo salva. Ecco il grido della nostra fede: chi ci potrà salvare se non tu o Dio che hai donato il tuo Figlio?

Altro che restare a casa, dobbiamo restare credenti! Occorre mettere in atto una vera e propria resistenza orante, noi siamo i partigiani della grazia, quelli che combattono coraggiosamente con le armi della preghiera. In questi giorni è stato bello vedere un prete che su una semplice ape car girava per le vie del suo piccolo paese con una Madonnina per benedire e consolare, un modo semplice per dire a tutti che la Chiesa non abbandona nessuno. Un altro prete è uscito dalla chiesa con il Santissimo sacramento per benedire la sua gente. Nessuno era indifferente, tanti s’inginocchiavano. Lo ha fatto anche un prete della mia diocesi e mi ha confessato che è stata la più bella processione eucaristica della sua vita sacerdotale. Sono tutti segni di una fede che non si arrende, non si lascia chiudere nelle chiese, tanto meno nelle case.

L’impossibilità di partecipare alla Messa non toglie anzi intensifica l’impegno dell’adorazione eucaristica. Fin dall’inizio di questo dramma la Cappella dedicata ai santi Luigi e Zelia Martin, e posta sotto la protezione di santa Teresa di Gesù Bambino, ha scelto di intensificare il suo ministero orante, impegnandosi a garantire un’adorazione continua, giorno e notte. Uno alla volta gli adoratori s’inginocchiano. Lo fanno a nome di tutti, anche di quelli che non possono uscire. Un’esperienza bellissima per loro e una luminosa testimonianza per tutti.

La paura non si vince restando chiusi nelle case, nell’attesa che la scienza venga a sconfiggere il male, ma confidando in Dio e chiedendo a Lui la grazia di vivere a testa alta. Abbiamo bisogno di ripetere le parole del salmista: “Non con la spada, infatti, conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarli; ma la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto, perché tu li amavi” (Sal 44). Parole antiche ma sempre attuali. Nel contesto di questa cultura abbiamo vergogna di dire che è Dio la nostra forza. È invece è proprio questa la fede che siamo chiamati ad annunciare. 

don Silvio Longobardi

FONTE: PUNTO FAMIGLIA



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