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La forza comunicativa di Giovanni Paolo II nei ricordi di Monsignor Ptasznik

Dialoghiamo con Monsignor Ptasznick, in particolare, della forza comunicativa del pontefice polacco: uno dei tratti più evidenti del suo magistero petrino.


Essere accanto a un grande pontefice, segna in maniera profonda la vita. Nello sguardo di Monsignor Ptasznik - nei suoi ricordi dei circa dieci anni vissuti in Segreteria di Stato vaticana assieme a Giovanni Paolo II - si percepisce un carico di emozioni, di sentimenti che è difficile descrivere a
parole. Dieci anni che lo hanno visto quotidianamente accanto a Wojtyla per la stesura di encicliche, documenti, omelie. “L’esperienza più importante della mia vita. Un’esperienza unica, irripetibile”, così la definisce Ptasznik. “Ci si ritrovava, ogni mattina: lui a dettare i documenti e io a trascrivere al computer. Ma non era solo questo. Era un lavoro poi che è divenuto vera e propria collaborazione. Ricordo quando il Santo Padre, dopo aver trascritto un passo di un discorso, mi chiese: Tu che ne pensi? E da quel giorno fu così per tutti i documenti dettati: encicliche, discorsi, omelie. Umiltà e alterità, le parole più importanti per Wojtyla. Mi ha sempre colpito il suo voler entrare veramente in chi gli stava di fronte. Questa è una delle lezioni più belle che mi ha lasciato”. Dialoghiamo con Monsignor Ptasznick, in particolare, della forza comunicativa del pontefice polacco: uno dei tratti più evidenti del suo magistero petrino.

Iniziamo con un argomento che proprio oggi - dopo l'esperienza dell’emergenza covid19 - sembra essere ancora più attuale: il pontefice e i media. Giovanni Paolo II è stato il papa che ha inaugurato - diciamo così - il rapporto Santa Sede e giornalisti. Qualche suo ricordo, qualche sua riflessione su questo tema.
I giornalisti, che hanno accompagnato il Papa durante il suo primo viaggio in Messico, ricordano con commozione l’improvvisata conferenza stampa sull'aereo. Giovanni Paolo II volle salutarli e augurare buon lavoro, come faceva in situazioni simili Paolo VI. Quando uno dei giornalisti prese il coraggio di domandare: “Santo Padre intende recarsi negli Stati Uniti?”, il Papa gli rispose in inglese. Sorprese tutti quella sua risposta. Era la sua capacità di mettersi - subito - in relazione con chi gli era davanti.
Lo faceva con chiunque. In quella stessa situazione, infatti, poi replicò alle domande nelle altre lingue. Il protocollo vaticano non prevedeva certamente qualcosa del genere, ma Giovanni Paolo II decise di
continuare le improvvisate conferenze stampa durante tutti i viaggi apostolici. Era l’inizio di una nuova era per la Chiesa.

Perchè, secondo lei, Mons. Ptasznik, il pontefice riusciva ad affascinare così profondamente i giornalisti? Qual’era la forza mediatica di Giovanni Paolo II?
Credo proprio che vada ricercata nella sua autenticità. Quando divenne papa, non ha cambiato il suo stile di vita e si è comportato con uguale naturalezza e semplicità, come era abituato come Vescovo a
Cracovia, o ancor più come cappellano degli studenti. In tutto ciò che diceva o faceva come Papa era veritiero, perché autentico. Quando esortava per la pace nel mondo, era veritiero, perché egli stesso ha
vissuto personalmente le tragedie della II guerra mondiale. Quando difendeva i diritti e la dignità dell’uomo, era veritiero, perché egli stesso ha subito la miseria e la violenza dei tempi del totalitarismo del XX° secolo. Quando, come primo Papa nella storia, varcava la soglia della sinagoga e parlava del dialogo con il giudaismo, era veritiero, perché da giovane abitava tra gli Ebrei e con tanti veva un rapporto di amicizia. Quando, durante gli incontri con i giovani, parlava non solo di Cristo e
della Chiesa, ma anche della vocazione, del lavoro, dell’amicizia, del matrimonio, era veritiero, perché ha dialogato con loro come nei tempi, in cui da giovane prete e vescovo, andava con gli studenti in montagne o sulla canoa.

I viaggi apostolici, sicuramente, furono uno strumento mediatico di non poco conto. Vedere il pontefice varcare i confini di così tanti stati fu uno dei messaggi più belli che la Chiesa potesse dare al mondo, attraverso - appunto - i mezzi di comunicazione: una Chiesa attenta e prossima a ciascun paese del globo terrestre. Come avveniva la preparazione di tutto questo?
Per Wojtyla questi viaggi rappresentavano - prima di tutto - un’occasione per proclamare il Vangelo e per incontrare la gente. E i mezzi di comunicazione riuscivano a fornirgli la possibilità di porre l’attenzione mediatica, sociale e politica sui problemi dei paesi che visitava. Era profondo conoscitore di Wilbur Schramm, uno dei padri della scienza sui mass-media, che ha sottolineato come la comunicazione sia un mezzo, grazie al quale esiste la comunità. Non è un caso che la parola
“communio” e “comunicare” abbiano la stessa radice. Si rendeva conto che le stesse verità sulla pace, sulla giustizia, sui diritti dell’uomo hanno un’eco diversa dette in Vaticano e nei paesi dove costituiscono un vivo problema. La preparazione a questi viaggi? Beh, era sorprendente vederlo
prepararsi in maniera approfondita nei mesi precedenti: incominciava con il leggere, studiare attentamente i rapporti che venivano dalle diocesi a cui sarebbe andato a fare visita, e poi c’erano gli incontri con i vescovi in Vaticano per conoscere ancora di più la realtà sociale, politica, che avrebbe avuto davanti. Voleva conoscere non solo i problemi, ma anche la cultura, le usanze, le tradizioni e la lingua. C’è un episodio assai divertente che non dimenticherò mai. Un vescovo giapponese mi
raccontò che quando appresero che il papa stava studiando la loro lingua prima del viaggio in Giappone, pensarono: “Imparerà qualche saluto e già questo ci farà piacere”. Arrivato lì, non si limitò - certo - ai soli canonici saluti: i vescovi si meravigliarono di ascoltare interi brani - per niente brevi - in lingua.

La comunicazione è fatta di gesti, non solo di parole. E Giovanni Paolo II, con il suo passato di attore, lo sapeva bene.
Tutti ricordiamo il bacio della terra che Giovanni Paolo II faceva ogni volta che scendeva dall’aereo, o - ad esempio - le scarpe tolte nella moschea o nel mausoleo di Gandhi, il bacio della croce durante la cerimonia del “mea culpa” e tanti altri gesti che per lui rappresentavano - prima di tutto - espressione della propria sensibilità, della sua personalità. In quel bacio della terra - come lui stesso spiegò una volta - è possibile ritrovare il bacio delle mani della madre, segno dell’amore e del rispetto filiale. Ricordo il viaggio apostolico in Timor Orientale, ex colonia portoghese che allora era occupata dall’Indonesia: le autorità militari gli vietarono di baciare la terra. E, addirittura, anche la croce: questo avrebbe potuto essere letto come riconoscimento della libertà del Timor. Ma, Giovanni Paolo II che sapeva bene l’importanza di quel preciso gesto, non si fece intimidire certamente. E così, prima della Santa Messa: ecco il pontefice baciare la croce. Un effetto straordinario. una forza comunicativa eccezionale.

Antonio Tarallo

FONTE: ACI STAMPA

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