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8. Anche gli Albanesi…Don Tonino, La voce della povertà, il Racconto

Giusto il tempo di vedere finalmente conclusa la guerra del Golfo, che altri guai minacciano la tranquillità interiore e l’integrità fisica di don Tonino Bello.


Lo sgretolamento del regime comunista nei Paesi dell’Est aveva generato numerose immigrazioni di profughi nell’Europa continentale, dove ragazzi, giovani e adulti si erano riversati alla ricerca di nuovi equilibri economici e sociali. E il popolo albanese, suo malgrado, più di ogni altro fu protagonista di un esodo terrificante e brutale i cui contorni, assai spiacevoli e per niente umani, hanno scritto una delle pagine più amare degli anni novanta.
Tutto ha inizio nell’estate del 1990, allorquando circa quattromila albanesi sbarcarono nel porto di Brindisi. L’evento pur recando scompiglio non fu poi troppo allarmante, e le persone vennero “smistate” per i diversi paesi europei. Nei primi mesi del 1991 altre ondate di profughi provenienti dall’Albania cominciarono a destare preoccupazione, mentre anche Molfetta diventò la mèta di una imbarcazione contenente oltre cento persone.
Sin da quei primi momenti don Tonino manifestò il suo vivo interesse di fronte al problema di dover garantire una giusta sistemazione ai profughi, e non venne meno il suo impegno nel sollecitare l’intera diocesi di Molfetta ad una vera e propria catena di solidarietà.
Non si riuscì a risolvere definitivamente il problema perché, nella prima decade di agosto, l’ennesima “invasione” di albanesi mise in crisi il Ministero della Protezione civile e quello degli Interni, nonché le autorità politiche e civili delle città costiere della Puglia. Migliaia di albanesi vennero stipati a Bari nello stadio “Della Vittoria”, mentre altri ancora furono lasciati sul molo del porto. La polizia aveva il suo bel da fare a controllare la situazione ricorrendo volentieri all’uso di manganelli e di altri mezzi repressivi. Una generale massa corporea si estendeva per tutto lo stadio, senza acqua, cibo e quant’altro possa servire per “sopravvivere” a quelle condizioni in un clima caldissimo e afoso. Soprattutto in quella circostanza don Tonino non riuscì a darsi pace.
Era il 10 agosto 1991. Il vescovo molfettese in compagnia di Renato Brucoli, allora direttore del settimanale diocesano “Luce & Vita”, si recò di persona a Bari riuscendo ad entrare nel vecchio stadio del capoluogo pugliese. Una scena allucinante apparve ai loro occhi. Donne, giovani, bambini e vecchi svenivano per insolazione o per disidratazione. Lo stesso Brucoli racconterà che «erano in 25.000 ammassati in poche centinaia di metri quadrati. Che molti cadevano come mosche perché collassati dai 40º che fanno bollire persino il manto d’asfalto. Vengono poi tirati per le braccia come sacchi di patate». Don Tonino è in mezzo a quella gente e soffre con loro, ma soffre ancora di più quando si accorge dell’assenza ingiustificata del ministro della Protezione civile e di quello degli Interni.
Nella confusione una bambina riconosce sua sorella, profuga del primo esodo. Entrambe non riescono però ad unirsi perché separati da un cordone di polizia. Don Tonino assiste a quel loro chiamarsi per nome, a quel loro protendersi in cerca di un abbraccio, a quel loro scambio di baci. Ma la polizia è sorda, non riesce ad intenerirsi innanzi a quella sofferenza. «Prete, lo chieda lei che porta la croce», dissero le ragazze rivolgendosi a don Tonino. E lui sofferente avvicinò le forze dell’ordine e ribadì: «Sono sorelle, lasciate che si abbraccino».
Mentre tornava in auto a Molfetta, il vescovo manifestava tutto il suo dolore attraverso un silenzio profondo, e alla richiesta di Brucoli di “lacerare” quel silenzio don Tonino rispose così: «C’è stato un momento in cui mi è sembrato di vedere non quella turba indistinta, ma i volti, uno per uno, di quanti la compongono. Anzi, non proprio quei volti giovani, ma, al loro posto, quelli delle loro madri. Sì, per trasposizione, i volti di chi ha generato quelle persone; la figura delle loro madri gravide, anziché quella dei figli che materialmente erano sul molo ad arrostire. Ed ho pensato: chissà quante carezze su quei ventri, quante tenerezze a levigarne la rotondità, a rendere più bella la culla già accogliente di quell’umanità nuova; chissà quanti baci a benedire l’attesa; chissà quante parole gravide d’affetto sussurrate su quelle cupole, dette sottovoce ma non tanto da non farne arrivare l’eco nel ricettacolo più profondo; e chissà quante scommesse, e quante ambizioni, e quanti progetti sul frutto di quell’amore. E poi, che ne è stato? Lo scempio che abbiamo constatato! Già, spreco d’amore. Gemme sfogliate. Petali al vento. Ma non è giusto! Quella gente va amata: uno per uno; come se, di ciascuno, fossimo madre».
Tornato in episcopio, don Tonino iniziò a scrivere diversi articoli di protesta per alcuni giornali nazionali e locali. Ancora una volta levò la sua voce a difesa dei più deboli, degli indifesi e degli umiliati. Ma all’onorevole Scotti, ministro degli Interni, non fu gradita la posizione del vescovo molfettese e, soddisfatto dell’«Operazione Sardegna» che riuscì a “rispedire” in Albania quasi tutti i profughi, beffò don Tonino pronunciando un antico esorcisma: «A peste, a fame et Bello libera nos Domine».
Don Tonino, a distanza di qualche mese dall’accaduto, scriverà una lettera al ministro Scotti manifestando il suo dispiacere per essere stato da lui deriso e beffeggiato, ma «non le scrivo per protestare e neppure per pretendere le sue scuse», annoterà don Tonino, «ma solo per segnalarle con preoccupazione la scarsa efficienza dei servizi d’informazione di cui dispone il ministero degli Interni».
La lettera continua con parole profonde, vere, significative, che vale la pena mettere in risalto. «Mi dispiace, poi, che di me lei si sia formata l’immagine di un esibizionista, smanioso di passerelle televisive, ma che non fa seguire i fatti alle belle dichiarazioni di principio. E mi dispiace anche che, mentre Andreotti ha adottato tre albanesi, non le risulti come il vescovo di Molfetta ne abbia tenuti in episcopio fino a 14 tutti insieme, condividendo per tanto tempo la mensa e la dimora».
E rivolgendosi ancora all’onorevole Scotti don Tonino continuava: «Quel che non capisco è che lei si sia accanito tanto contro di me al punto da scadere di stile quando, nella sua intervista, alludendo al mio cognome, ha fatto ricorso all’invocazione sacra: “A peste, a fame et bello, libera nos Domine”. Questa battuta mi è dispiaciuta moltissimo, soprattutto perché lei afferma che è stata suggerita da un amico, di cui non sono così curioso da chiederle il nome. Vedermi, però, deriso come una bertuccia sulla stampa nazionale, e per bocca del ministro degli Interni, è stato peggio che prendere in testa una di quelle manganellate contro cui ho protestato [...] Non vorrei apparirle preoccupato della mia immagine più di quanto non lo sia per la dignità dei poveri. Nell’economia della mia vita spirituale, mi sta bene anche questa umiliazione. E, tutto sommato, la ringrazio. Desidero dirle, anzi, che non serberò nessun rancore nei suoi confronti e che, se da oggi le assicuro la mia preghiera al Signore perché la guidi in un lavoro così difficile per le sorti della nostra nazione, farò seguire i fatti alle parole. Anche stavolta».
Quello degli albanesi non fu l’unico problema che, nell’estate del 1991, preoccupò don Tonino. Anche la sua salute cominciò a vacillare, procurandogli dispiaceri di notevole considerazione.
L’incontro e, successivamente, l’amicizia con il medico Domenico Cives permetterà a quest’ultimo di constatare la grave malattia che “annidava” nel corpo del vescovo, il quale era già in cura per una “gastroduodenite”. Fu il dottor Cives a visitare per primo don Tonino, e da quella visita ricavò (come testimonierà poi nel suo libro-memoriale “Parola di Uomo”) «notizie che permisero di escludere che la patologia sofferta potesse essere rappresentata da una banale gastrite o da un’ulcera gastrica». Don Tonino si sottopose così ad una più accurata visita specialistica, e in quella occasione si venne a conoscenza della sua iscrizione all’AIDO (Associazione Italiana Donatori Organi) nonché delle sue 48 donazioni di sangue! Il 29 agosto l’esito della gastroscopia, a cui don Tonino fu sottoposto, rilevò la presenza di un “adenocarcinoma gastrico”, vale a dire un tumore maligno allo stomaco.
Toccò allo stesso Cives comunicare la grave notizia al vescovo. Fu quello un incontro abbastanza doloroso e delicato. «Purtroppo si tratta di un cancro dello stomaco», disse il medico. «Con queste parole avevo spento la dolcezza del suo sorriso e il viso cambiò repentinamente espressi0ne», scriverà Domenico Cives nel suo libro, «restando in silenzio don Tonino continuava a fissarmi con occhi spalancati, ma avevo la netta sensazione che stesse guardando nel vuoto. Era rimasto frastornato dall’improvvisa e terribile notizia».
Non c’era tempo da perdere e per questo motivo furono avvisati della circostanza i familiari del vescovo. Il dottor Cives aveva comunque pensato bene di affidare il caso ad una équipe di medici esperti, anche di fama internazionale, e ne rimase invece sconcertato quando don Tonino gli informò della sua prenotazione all’ospedale di Gagliano del Capo, paesino in provincia di Lecce. «Se a quell’ospedale fa capo tanta gente povera», diceva don Tonino, «non capisco il motivo per cui io debba essere operato altrove. E poi ho fiducia nel chirurgo. Al resto penserà la Provvidenza».
Don Tonino fu accontentato dal momento che si ricoverò all’ospedale di Gagliano del Capo dove, il 3 settembre, fu eseguito l’intervento chirurgico dal dottor Luigi De Blasi al quale assistettero lo stesso Cives e Marcello Bello, fratello minore del vescovo, anche lui medico e che lavorava nello stesso ospedale. I tempi dell’operazione si rivelarono più lunghi del previsto, oltre sei ore, perché la situazione si manifestò alquanto grave.
Dopo aver trascorso alcune settimane di convalescenza prima a S. Maria di Leuca e dopo a casa sua in Alessano, don Tonino rientrò a Molfetta a metà ottobre desideroso di tornare ad occuparsi del suo lavoro di vescovo. E lo fece, nonostante il decorso post-operatorio, con la stessa intensità di prima. Riprese a girare per la diocesi, ad occuparsi dei problemi della gente, a promuovere iniziative, come se nulla gli fosse accaduto. A fine novembre don Tonino dovette recarsi a Milano, presso il Centro Tumori per un consulto medico specializzato. Una parentesi brevissima e poi di nuovo a Molfetta, in mezzo alla sua gente.
Il 1991 era stato un anno difficile e negativo. Troppi avvenimenti tristi e preoccupanti si erano succeduti a catena. Prima la guerra del Golfo Persico, successivamente la questione delicata degli albanesi e, infine, la malattia. Del resto altri avvenimenti metteranno ancora a dura prova il sacrificio di don Tonino Bello.
(continua)

La presente biografia è stata pubblicata a puntate sul periodico l'altra Molfetta, da dicembre 1995 a novembre 1996. Successivamente i testi, ampliati e approfonditi dallo stesso autore, sono stati pubblicati (con una ricca documentazione fotografica) in volume edito da Luce e Vita nella Collana Quaderni.

Sergio Magarelli


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