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E Leo continuò a remare

La testimonianza di un ragazzino guarito dalla leucemia

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Leonardo Massai a 13 anni si trovava a remare nelle acque del fiume Tevere coi suoi compagni di barca, come faceva da anni, per prepararsi a fronteggiare l’ennesima sfida, quella di una importante gara di canottaggio che sognava di vincere. Leonardo non poteva sapere che in quel pomeriggio di giugno sarebbe stato trascinato su un altro terreno di battaglia, la più importante per la sua giovane vita. Delle strane macchie sul corpo, un’inconsueta spossatezza, la corsa all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e in pochi minuti una diagnosi quasi senza appello: leucemia linfoblastica acuta, un tumore del sangue molto raro. La forma specifica che aveva attaccato Leonardo sembrava non lasciare speranze: la sua era estremamente aggressiva e veloce. Così Leonardo rimane sospeso tra la vita e la morte per diverse settimane, non reagisce alle terapie e si aggrava rapidamente. Il prof. Franco Locatelli, primario del reparto, tenta il tutto per tutto e col consenso dei genitori avvia una terapia sperimentale che si rivelerà la via di salvezza, l’ultima e unica, per la vita del suo piccolo paziente. Oggi Leonardo è un ragazzo alto e forte, continua ad allenarsi e allena a sua volta i piccoli canottieri della scuola Tevere Remo, ha collezionato diverse vittorie con il suo equipaggio, sta perseguendo i suoi sogni di realizzazione di una vita adulta piena e soddisfacente (frequenta il primo anno di Scienze motorie a Roma) ma non dimentica quei cinque anni di vita a contatto stretto con l’ospedale: in quel luogo lui dice di essere diventato uomo. Anche per questo motivo ha deciso di mettersi a disposizione come testimonial dell’Airc.

Leonardo, pur in questo turbinio di esperienze a contatto con una sofferenza quasi incomprensibile, hai sempre mantenuto uno sguardo e un sorriso solari, pieni di speranza. Com’è stato possibile secondo te? Cosa ti ha permesso di andare avanti anche nei momenti di maggiore abbattimento, per te ma anche per la tua famiglia, considerato che eri poco più che un ragazzino?
Avendo appena compiuto 13 anni non ero pienamente consapevole del rischio al quale questa malattia poteva portare perché, essendo così piccolo, giustamente i medici decisero di parlare solo con i miei genitori della gravità della situazione e mantenere attive in me la grinta e la voglia di uscire dall’ospedale. Infatti la grande spinta che mi ha permesso di andare avanti era la voglia di ritornare alla normalità, riprendere la vita normale, tra scuola, amici e sport, quella normalità che era totalmente sparita rinchiuso per lunghissimi mesi tra quattro mura di una stanza d’ospedale.

Sappiamo che con generosità hai condiviso la tua storia in Tv, sui media e persino nelle aule universitarie, parlando ai tuoi coetanei che si preparano alle professioni di cura, portando loro una grande testimonianza di coraggio e fortezza, incoraggiandoli a cercare il bello in ogni situazione. Le tue scelte fanno pensare a quanto sostenuto da V. Frankl sulla necessità, per superare le situazioni più difficili e apparentemente senza soluzione, di trovare un senso che vada oltre se stessi.
Ho raccontato la mia storia molte volte, tra Tv, radio e di persona sperando di fare del bene ad altri. Posso dire che quando ci si trova in situazioni come questa, bisogna assolutamente trovare il coraggio e la forza di combattere, di andare avanti, se ci si arrende è finita. Si cerca un passatempo, un hobby, qualcosa da fare per andare avanti giorno dopo giorno nel lungo viaggio verso la guarigione.

C’è chi si ricorda di te come di un ragazzino non molto loquace, a tratti timido e quasi incerto. Come ha potuto quel ragazzino sopportare “l’espropriazione” del proprio corpo, di un corpo che mutava a ritmi rapidissimi e assai dolorosi? Un’espropriazione che ha significato anche la perdita di un’identità rassicurante, così fondamentale per l’adolescenza a cui ti stavi affacciando? Racconti che non ti riconoscevi più, che evitavi di guardarti allo specchio.
C’è stato un periodo, il più brutto tra tutti, durante il quale tra chemioterapie e radioterapie il mio corpo era irriconoscibile, non riuscivo a mangiare e a malapena bere: persi più di 15 chili, che per un ragazzino che ne pesava 55 voleva dire non avere un briciolo di energie neanche per camminare. Con un cambiamento come questo, quando mi guardavo allo specchio non riconoscevo più il mio corpo, quasi mi vergognavo a guardarmi. Ricordo un giorno che senza pensarci, d’istinto provai a correre e mi cedettero le gambe facendomi cascare a terra a peso morto, “io che prima non stavo un attimo fermo, ora non riesco neanche a fare due passi correndo”, pensai. Quel giorno mi spaventai e soffrii molto…

Tu con la sofferenza hai dovuto scendere a patti spesso in quel periodo, costretto ad accettare di non poter dettare tu le regole del gioco, di un gioco ai tuoi occhi insensato. Talvolta hai dovuto “sopravvivere” alla morte di altri bambini o ragazzi del tuo reparto. Ti è capitato, come a molti, di dover resistere al e nel dolore per poter accedere a un’ulteriorità: esposto alla morte sei rimasto nel paradosso esistenziale che però ti ha permesso di tornare a te stesso in modo più radicale. E a un certo punto è iniziato il ritorno, nella forma di un lento tornare a te stesso. Quale te stesso hai incontrato in questo viaggio di riapprodo al tuo io? Che visione della vita hai maturato?
Adesso sono finalmente ritornato alla mia vita normale, alle mie abitudini. Sicuramente dopo aver passato tutta questa esperienza non mi identifico più in quel ragazzino spensierato che ero un tempo, sicuramente mi ha “aiutato” a crescere e maturare. Ora penso molto, prima di fare qualcosa, di prendere una decisione ci rifletto su, cosa che prima sicuramente non facevo. Mi rendo conto di essere anche cambiato nel modo di approcciare con la vita e le sue difficoltà (che mi sembrano infinitamente più piccole rispetto al mio passato), non mi faccio mai troppi problemi e quando mi si pongono davanti cerco sempre di superarli, ma se non ci riesco non mi abbatto, ci provo e ci riprovo fin quando non ce la faccio. Adesso studio Scienze motorie e sinceramente raramente mi capita di ripensare a ciò che ho passato, preferisco guardare avanti, concentrarmi sul presente e lasciarmi il passato alle spalle, senza dimenticarlo, ma lasciandolo indietro… continuando a remare.

di Raffaella Esposito

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