Bergoglio ha chiuso il Sinodo sull'Amazzonia esattamente 33 anni dopo l'incontro interreligioso di Wojtyla ad Assisi.
Per la prima volta nella storia, il 27 ottobre 1986, i leader delle grandi religioni mondiali si incontrarono per dialogare e pregare per la pace. Si aprì una nuova stagione di dialogo, che ha contribuito a superare incomprensioni, diffidenze e chiusure. "La pace è un cantiere aperto a tutti", disse Giovanni Paolo II in un mondo segnato dalle tensioni della guerra fredda. 33 anni dopo Francesco ha chiuso in Vaticano il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia. Una coincidenza di date che ha scatenato dietrologie negli ambienti ultra-trazionalisti che accomunano Giovanni Paolo II e Jorge Mario Bergoglio nell’accusa di eresia, sincretismo religioso e negazione del Magistero tradizionale della Chiesa.
Superamento delle divisioni
Il decano dei vaticanisti Gianfranco Svidercoschi, ex vicedirettore dell’Osservatore Romano, amico e collaboratore di Karol Wojtyla inquadra correttamente il significato del dialogo interreligioso. E lo fa partendo dagli indiretti effetti divisivi della fine della guerra fredda sull’ecumenismo. “Crollò il Muro, ma, per certi aspetti, successe il caos - spiega Svidercoschi-. Ci fu una tale ubriacatura di libertà che finì per svilire il grande bene appena riconquistato. Spuntarono i nazionalismi, portando allo scoperto antichi rancori etnici, culturali e religiosi”. Nei Balcani ricominciò la guerra, una guerra fratricida. La Chiesa cattolica dovette affrontare nuove controversie con l’Ucraina e la Romania (per la questione degli “uniati”, ossia gli orientali legati a Roma), con Mosca (per aver riorganizzato la gerarchia ecclesiastica nell’ex Urss) e con la Chiesa anglicana (che aveva ammesso le donne al sacerdozio). Intanto, in Africa e in Asia si espandeva l’islam fondamentalista, con gravissime ripercussioni sulle minoranze cristiane. Fu allora che venne fuori la grandezza di Giovanni Paolo II come leader spirituale. Venne fuori l’incredibile tenacia, con la quale il Papa cercò di tenere unite le fila di quella comunione tra le religioni che Assisi aveva aiutato a riscoprire. Anzi, fece ancora di più. "Nella lettera enciclica Ut Unum Sint, dichiarò la propria disponibilità a un 'dialogo fraterno' con gli altri cristiani, per trovare una nuova forma di esercizio del ministero petrino, affinché tornasse a essere, come alle origini, fattore di unità- sottolinea Svidercoschi -. Papa Wojtyla, nella sua missione, non si fermò neppure di fronte alle offese, ai rifiuti. Andò in terre luterane e calviniste, a ripetere umilmente i “mea culpa” della Chiesa cattolica; e ci furono dei vescovi luterani, in Norvegia e in Danimarca, che disertarono gli incontri di preghiera. Il Papa andò nei Paesi ortodossi, come in Romania, dove, all’iniziale ostilità, rispose quel grido esploso in mezzo al popolo: «Unitade! Unitade!», e c’erano insieme ortodossi, cattolici, protestanti evangelici”.
Autorità morale
Non si tenne, per il Giubileo del 2000, l’incontro pancristiano a Gerusalemme. “Ma, in compenso, ci fu quella straordinaria immagine ecumenica a Roma, nella basilica di San Paolo- sottolinea Svidercoschi-.C’erano sei mani a spingere, per aprire la Porta santa. Le mani del Papa e, per “aiutarlo”, le mani del primate anglicano, Carey, e dell’inviato ortodosso di Costantinopoli, il metropolita Athanasios”. Poi, insieme, attraversarono la soglia, e, insieme, entrarono nella chiesa che, dedicata all’Apostolo delle Genti, è quella ecumenica per eccellenza. Era stato Giovanni Paolo II a volerlo, come “segno” di grande significato, e di grande speranza, per il cammino verso l’unità cristiana. Un cammino, però, che avrebbe avuto, inevitabilmente, e drammaticamente , i suoi alti e bassi. Come accadrà nel 2001. "Il 6 maggio, un pontefice entrava per la prima volta in una moschea, quella degli Omayyadi di Damasco - puntualizza Svidercoschi-. E soltanto quattro mesi dopo, l’11 settembre, tre aerei con decine di passeggeri si schiantavano contro le Torri Gemelle, a New York, e contro l’ala ovest del Pentagono, a Washington. Era come se il fondamentalismo islamico avesse dichiarato guerra all’America, all’Occidente. Una guerra nel “nome” di Dio. E fu, per combattere contro questa bestemmia, che papa Wojtyla, benché anziano e malato, andò in giro per il mondo, fino all’Azerbaigian”. E, grazie alla sua autorità morale, grazie alla sua credibilità, specialmente per aver bene distinto tra cristianesimo e Occidente, grazie a lui, alla sua opera per la pace, l’umanità si salvò da uno scontro di civiltà o, peggio, da una “guerra santa”.
L'idea dell’incontro
Veniva da lontano, l'idea di una "via religiosa alla pace". A lanciarla, per primo, era stato Dietrich Bonhoeffer. Infuriava il nazismo e l’eroico pastore luterano, fatto più tardi uccidere da Hitler, aveva proposto un’Assemblea mondiale delle Chiese cristiane che gridasse «la pace di Cristo al mondo impazzito e teso ad autodistruggersi». Cinquant’anni dopo, la proposta era stata ripresa e attualizzata da un fisico e filosofo tedesco, Carl Friedrich von Weizsäcker, il quale ci aveva scritto un libro ed era andato a parlarne con Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla era pienamente d’accordo. Anche perché, appena eletto, aveva voluto incontrare il patriarca ortodosso di Costantinopoli, intendendo confermare l’impegno irrevocabile della Chiesa cattolica (e del nuovo Papa) nella ricomposizione dell’unità cristiana. “Era andato anche nella Germania federale, primo Papa a mettere piede su quella terra dal tempo della Riforma - afferma Svidercoschi-. Era andato in Inghilterra, patria dell’anglicanesimo, riuscendo a smantellare gli ultimi residui di anti-papismo. E, nello stesso tempo, aveva ridato impulso al dialogo interreligioso, viaggiando dall’India (induismo) a Casablanca (islam), e compiendo la storica visita alla sinagoga di Roma”. Viaggi e contatti erano stati estremamente istruttivi per papa Wojtyla. Anzitutto, era emerso chiaramente come il dialogo ecumenico non potesse consistere soltanto nell’incontro tra due Chiese a metà strada, e quindi nell’equilibrio tra i rispettivi compromessi, ma, al contrario, dovesse partire dal comune patrimonio di fede. Non solo, ma, allargando il discorso all’intero mondo religioso, Giovanni Paolo II aveva maturato la convinzione che la “sapienza” di Dio, anziché riservata solamente ad alcuni, fosse una porta spalancata a tutti gli uomini.
Un ponte verso l'Islam
"Dunque, un punto di convergenza in cui i credenti 86 delle diverse religioni avrebbero potuto riconoscersi come figli di uno stesso Padre e, addirittura, come fratelli- ricostruisce il decano dei vaticanisti-. Una preghiera mondiale per la pace In più, c’era da tener conto del continuo aggravarsi della situazione internazionale. Due Paesi islamici, l’Iran e l’Iraq, erano in guerra tra di loro, con i soldati dei rispettivi eserciti che invocavano lo stesso Dio. E perciò, se le religioni avessero continuato a combattersi, o anche solo a ignorarsi, quale credibilità avrebbero avuto nel parlare di pace? Fu importante che, in quel momento, Roma avesse messo definitivamente da parte l’esclusivismo cattolico (retaggio del tempo in cui si riteneva unica garante dell’ordine mondiale) e avesse riconosciuto a tutte le Chiese e le religioni una funzione ugualmente decisiva per la riconciliazione tra gli uomini e tra i popoli”.
Un segno forte
Ma questo poteva bastare? Alla fine, Giovanni Paolo II ebbe un quadro preciso, e ruppe ogni indugio: "Una preghiera di tutte le religioni per la pace, ecco che cosa ci vuole". E decise che la città di san Francesco fosse la sede più adatta per un evento del genere. E così fu. Per la prima volta, il 27 ottobre del 1986, ad Assisi, i rappresentanti di tutte le religioni, ossia di più di quattro miliardi di donne e di uomini, si trovarono a pregare nello stesso luogo, nello stesso momento, per chiedere all’Altissimo il dono della pace. Le preghiere erano diverse. Diverso il modo di pregare. Diverso anche il “destinatario”, alcuni rivolgendosi a un Dio unico, altri a un Assoluto impersonale, senza nome. I musulmani pregavano il “Dio grande”, Allahu Akbar; mentre i pellirosse fumando il calumet della pace invocavano il “Grande Spirito”. Eppure, malgrado la molteplicità delle “voci”, e il doveroso rispetto della identità di ogni esperienza personale, si ebbe la chiara sensazione che ci fosse una comunione fraterna, una straordinaria armonia. Quella preghiera (dove, come in tutte le preghiere, avviene l’incontro tra Dio e l’uomo ) obbligò le religioni a un esame di coscienza, a un atto di purificazione. Impegnandole a ripensare le cause all’origine dei conflitti, e quindi a tornare a essere costruttrici 87 di una cultura di pace, e a ripudiare per sempre ogni forma di violenza, ogni legittimazione della guerra, del terrorismo. La Giornata mondiale di preghiera per la pace (onorata dalla sospensione delle guerre in tutto il mondo, non una sola vittima) fu, secondo Svidercoschi, l’iniziativa più audace, più coraggiosa, più “nuova” di Giovanni Paolo II, ma anche la più contestata. Lo stesso Wojtyla, seppure in tono scherzoso, raccontò di come "per poco non lo scomunicassero". Alcuni cardinali e non pochi curiali protestarono per il presunto sincretismo, per l’aver messo le religioni tutte sullo stesso piano. Ma non era stato così. Invece, quella Giornata rappresentò come uno spartiacque nella storia dei rapporti tra le religioni, dopo secoli di divisioni, di contrasti, di incomprensioni. Ed è stato un grande merito della Comunità di sant’Egidio, l’aver tenuta accesa la “fiaccola” di Assisi e averla portata in giro in tutto il mondo.
Giacomo GALEAZZI
FONTE: In Terris Online
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