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L’Evangelium vitae, una sfida ancora da cogliere

Nonostante le esortazioni di san Giovanni Paolo II, a 30 anni dalla sua splendida enciclica la battaglia per la difesa della vita non ha informato il comportamento dei cristiani nel mondo. Tutto è lasciato all’iniziativa di pochi gruppi e persone di buona volontà. Serve una svolta culturale.


L’Evangelium vitae compie trent’anni. Tanti ne sono passati dal 25 marzo 1995, quando san Giovanni Paolo II ha consegnato alla Chiesa e a tutte le persone di buona volontà questa grande enciclica sul valore e sull’intangibilità della vita umana.

Un’enciclica per denunciare e fare argine a quella che il Papa polacco ha chiamato «cultura di morte» e che si configura in molteplici attentati contro la vita dell’uomo, sostenuti e messi in atto anche da forti correnti culturali, economiche e politiche, vere e proprie «strutture di peccato». Una guerra contro i deboli, quando l’uomo è più indifeso, all’alba e al tramonto della vita, combattuta con grande disponibilità di mezzi e dispiegamento di forze: sono di quegli anni le Conferenze internazionali su popolazione e sviluppo, patrocinate dall’Onu, tra cui in primis quella del Cairo che lega lo sviluppo equo e sostenibile del Pianeta all’accesso ai servizi per la salute riproduttiva e sessuale (leggi: contraccezione e aborto) al fine di giungere al contenimento demografico. Tesi e progetti ribaditi dalla successiva Conferenza internazionale di Pechino sulle donne.

La vita dell’uomo è sacra e inviolabile: nasce dal seno della Trinità, è stata redenta dalla Croce di Cristo, è destinata alla visione beatifica di Dio – ribadisce più volte Giovanni Paolo II – e per questo «le leggi che autorizzano aborto ed eutanasia si pongono radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica» (n. 72 Ev). È indispensabile che alla cultura di morte si risponda con una nuova cultura della vita umana. Fondamentali e urgenti per Giovanni Paolo II sono l’incessante annuncio del Vangelo della vita a tutti gli uomini e «una grande preghiera per la vita che attraversi il mondo intero» (n. 100 Ev).

Ci chiediamo oggi, a distanza di trent’anni, quanto le accorate parole e le raccomandazioni di Giovanni Paolo II abbiano guidato l’agire delle persone di buona volontà, dei credenti e degli uomini della Chiesa. Si ricava purtroppo l’impressione che la battaglia per la difesa della vita sia stata affrontata come una battaglia di retroguardia, con scarsità di mezzi e munizioni e con l’unico intento di contenere i danni. Una battaglia demandata a pochi gruppi pro vita che lavorano con impegno e buona volontà, ma che sono lasciati soli. Possiamo affermare che la battaglia per la difesa della vita non ha permeato né informato di sé il comportamento dei cristiani nel mondo e nella società. Non ha innervato i gangli della cultura, del diritto, del costume. Non è diventata battaglia condivisa.

Al contrario, nel volgere di questi trent’anni la cultura di morte ha fatto passi da gigante e l’aborto si è consolidato come prima causa di morte nel mondo, avviandosi ad essere riconosciuto, come già accaduto in Francia, come diritto in una legge costituzionale «che possiede anche un’eminente cifra simbolica, destinata a influire sulla formazione delle generazioni future, diretta a svilire, fin quasi a cancellarlo, il valore della famiglia nonché a deprimere sempre più la solidarietà sociale e la continuità della stessa comunità politica e umana» (M. Ronco, Sedicesimo rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, Cantagalli, Siena 2024, p. 125).

Desolante il vuoto educativo e la solitudine sui temi attinenti il valore della vita in cui sono abbandonati oggi i giovani, nonostante il vigoroso richiamo di Giovanni Paolo II alla necessità di un’educazione sui temi eticamente sensibili, in quanto «è un’illusione pensare di poter costruire una vera cultura della vita umana se non si aiutano i giovani a cogliere e a vivere la sessualità, l’amore e l’intera esistenza secondo il loro vero significato e nella loro intima correlazione» (n. 27 Ev).




A commento dei risultati di un’indagine effettuata attraverso un questionario proposto ai giovani su temi eticamente sensibili quali aborto, eutanasia, contraccezione, rapporti prematrimoniali, e nel quale giovani credenti e praticanti davano risposte pressoché omologhe a quelle di coloro che si dicono atei o agnostici, Mario Palmaro denunciava la sostanziale rinuncia da parte della Chiesa nel contrastare la pervasiva cultura imperante. Scrive infatti Palmaro: «L’emergenza educativa non è solo nel mondo, ma è nella Chiesa. Ogni aspetto formativo esige il suo linguaggio e le sue competenze: la morale non può essere insegnata utilizzando schemi vaghi e fumosi e abbandonando quel rigore definitorio e quella chiarezza di giudizio che permette l’esercizio critico della retta coscienza cioè letteralmente la “distinzione” fra ciò che è conforme alla natura dell’uomo e ciò che non lo è, tra il bene e il male». (Figli di un’etica minore, a cura di Mario Palmaro e Tommaso Scandroglio, Editori Riuniti University Press, Roma 2014, pp. 53-54).

Disatteso anche il forte richiamo dell’enciclica alle donne «per un “nuovo femminismo” che senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli “maschilisti” sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile» (n. 99 Ev). Mai come in questi tempi la donna, a seguito del femminismo radicale e dei modelli instancabilmente proposti e veicolati da tutto il sistema mass-mediatico, è giunta a negare sé stessa, la sua stessa natura, il suo essere colei che si prende cura, che possiede quella capacità di protezione, di accoglienza, di dono, negata appunto dal femminismo. Potrà ritrovare sé stessa se accoglierà l’esortazione di Giovanni Paolo II: «Riconciliate gli uomini con la vita. Voi siete chiamate a testimoniare il senso dell’amore autentico, di quel dono di sé e di quella accoglienza dell’altro che si realizzano in modo specifico nella relazione coniugale, ma che devono essere l’anima di ogni altra relazione interpersonale» (n. 99 Ev).

Marisa Orecchia

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