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Nella cura la pace

«La cultura della cura come percorso di pace»: è questa la buona notizia che Papa Francesco affida al mondo per il nuovo anno alle porte. Il Messaggio per la 54a Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2021) si serve ancora dell’immagine della barca. La mente va subito alla serata piovosa del 27 marzo 2020, quando in piazza San Pietro deserta, Francesco ha invitato tutti a pensarsi sulla stessa barca. Espressione che ha fatto fortuna in tempo di pandemia, citata in lungo e in largo, e qualcuno ha rischiato di svuotarla della sua forza originale!



La metafora della barca si presta per dare due indicazioni.

Innanzi tutto, serve a descrivere la situazione nella quale ci troviamo. La barca è «scossa dalla tempesta della crisi» e «procede faticosamente in cerca di un orizzonte più calmo e sereno». Quando c’è tempesta, la tentazione immediata è rifugiarsi nel «Si salvi chi può!». Ciò significa, in concreto, indifferenza, scarto e scontro. I conflitti nascono anche dalla paura di essere lasciati soli di fronte alle intemperie della vita. La crisi sanitaria ed economica segnala un’altra crisi sottostante: quella relazionale. Ognuno pensa per sé. L’altro è visto come rivale o nemico. Allora, il sospetto prende il sopravvento e ci si arma con la certezza che prima o poi bisognerà difendersi da qualcuno.

La seconda indicazione riguarda il timone che deve operare il salvataggio della nave in tempesta. Esso è dato dalla dignità della persona umana. Si sa, il timone deve rimanere saldo, altrimenti la nave affonda. Così anche nelle relazioni sociali. Se al centro non c’è la persona nella sua dignità, con le sue fragilità e i suoi limiti, con le sue bellezze e le sue potenzialità, finiscono per prevalere le terribili logiche utilitaristiche. Chi non ricorda l’affermazione di un industriale italiano che, in conferenza stampa, si è lasciato scappare riguardo alla vita dei contagiati: «Pazienza se qualcuno muore!»? L’importante è che lo show dell’economia non si fermi. La vita è in second’ordine! La mentalità sottostante è immorale: chi non è utile alla società, può essere perduto. Un po’ come succedeva un tempo durante le tempeste: si gettavano in mare i carichi più ingombranti, a partire dai pesi inutili. La differenza è che qui si tratta di persone. Oggi la cultura dello scarto porta a vedere negli anziani, nei disabili, nei migranti, nei poveri… un peso che non serve. Probabilmente, tra qualche settimana, quando finiranno i sostegni all’economia, molti lavoratori verranno indicati come «esuberi» e saranno buttati fuori dalla produzione. Non serviranno più. Così si rafforza la logica che il lavoro non è un investimento, ma un peso per l’impresa.

E sarà «anno nuovo, vita vecchia». La mentalità utilitaristica lascia solo vittime dietro di sé. È come un tritacarne disposto a distruggere tutto pur di salvare i profitti di chi vuole ritorni immediati dai suoi investimenti. La vita delle persone conta quel che conta. Sono esistenze inutili. Vite di scarto, per l’appunto. Tale logica è diventata cultura e ha costruito un modello di uomo: accettiamo le guerre che gli innocenti pagano sulla loro pelle, non affrontiamo di petto un’epidemia se miete vittime solo tra popoli abituati alla miseria, produciamo armi distruttive che uccidono innocenti (ritenuti effetti collaterali), non diamo valore ai disoccupati rassegnandoci alla loro perdita sociale, allontaniamo i poveri dal cuore delle nostre città…

Il timone è fondamentale: senza centralità della persona il viaggio dell’umanità ha come meta il degrado. La cultura dello scarto espone in vetrina a caro prezzo il mito dell’uomo che non deve chiedere mai. In realtà, la persona soffre, è fragile, fa i conti coi limiti, parte da condizioni di miseria, necessita di cultura: la concretezza fugge ogni comoda idealizzazione. Scrive Francesco: «Ogni persona umana è un fine in sé stessa, mai semplicemente uno strumento da apprezzare solo per la sua utilità».

Inoltre, la bussola della navigazione è data dai princìpi sociali fondamentali, che il Messaggio elenca nel bene comune, nella solidarietà e nella salvaguardia del creato. Il bene comune indica l’importanza di «remare insieme»: c’è bisogno del contributo di tutti. Ogni persona è preziosa per il solo fatto di esistere. Occorre scommettere sull’intelligenza, sulla capacità, sulle competenze e sul cuore delle persone. Tutti sono capaci di fare il bene, ma nessuno può essere sostituito nel realizzare ciò di cui è capace.

La solidarietà, invece, porta a remare nella stessa direzione, con una «determinazione ferma e perseverante». Così l’altro si sente parte di un progetto che si chiama comunità o famiglia umana e gioisce della protezione che gli proviene dal poter contare sul prossimo. Si inserisce qui la proposta, già presente nella Fratelli tutti, di costituire un «Fondo mondiale», risparmiato dalla rinuncia alle spese militari, per eliminare definitivamente la fame e per sostenere i Paesi più poveri. Qualcuno raccoglierà l’invito a vivere questa concreta solidarietà?

Infine, la custodia del creato si fonda sulla consapevolezza che la barca può muoversi solo in mare. L’acqua non è solo un ambiente, ma è luogo di vita, condizione che rende possibile il viaggio. Siamo incarnati e proprio per questo siamo parte della creazione. Il Papa parla di interconnessione tra il creato e l’esperienza umana, tra il grido della terra e quello dei poveri. La cura per il creato rivela chi siamo perché esprime l’importanza dei gesti più semplici.

Come scrive il poeta Peter Handke nel suo Canto alla durata:

«Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo».

Peraltro, la stessa enciclica Laudato si’ è un costante appello ad accogliere una spiritualità ecologica capace di prendersi cura di ogni realtà creata. La conversione degli stili di vita ci fa prendere coscienza che la vita umana è intrecciata alle sorti del pianeta.

La bussola del bene comune, della solidarietà e della custodia del creato, accanto al timone della dignità della persona umana, rappresentano una cultura della cura in azione. Operano pacificazione. Tolgono benzina ai conflitti infuocati, disinnescando la tentazione di distruggere l’altro e l’ambiente. Così la pace trova un terreno fecondo per crescere. La cura delle relazioni è impegno concreto e forma ogni giorno una comunità di fratelli che si accolgono reciprocamente. Ci si prende cura gli uni degli altri. Anche in tempo di pandemia, la cura non è solo sanitaria. È spirituale, sociale, umana, ecologica, economica e culturale. Avvertiamo tutti la necessità di sperimentare le relazioni come àncora di salvezza.

Del resto, il riconoscimento della presenza dell’altro è la vera ricchezza e l’unica novità degna di nota nella vita. Come non ricordare che questo è il grande annuncio del Natale? Dio in Cristo si fa uomo e offre speranza. Il suo esserci è dono che apre squarci di avvenire inattesi. Lo aveva intuito don Primo Mazzolari nel 1939, a poche settimane dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. In un articolo sul quotidiano L’Italia si rivolgeva a Gesù con questa invocazione: «Mi basta che Tu sia fra noi. Noi possiamo divenire anche più cattivi, ma se Tu resti, anche questo grosso male passerà». Parole che sembrano scritte in questo 2020 che tramonta. La pandemia passerà grazie a relazioni nuove oltre che per il vaccino. Gli operatori di cura sono anche artigiani di pace. Felice connessione.

di Bruno Bignami

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