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La chiave per comprendere la Pasqua

In un mondo che non tollera la croce e fa di tutto per costruire tangenziali per evitarla, Gesù sceglie di attraversarla fino all’ultimo respiro. Si fa buio su tutta la terra: Gesù precipita nella morte, ma la morte non può trattenere Colui che è vivo.

Se penso alla festa di Pasqua ormai vicina la prima immagine che mi viene in mente è un altare di una chiesa del Nord costruito su un grande blocco di marmo pesante. Ricorda la pietra che chiudeva il sepolcro in cui era stato deposto il Cristo, al termine della sua esistenza terrena. Ma guardandola con attenzione sembra una spugna leggera, capace di alzarsi da terra, quasi sollevata da uno scoppio di vita. Una pietra da cui esplode la vita. Mi fa pensare allo stupore dei discepoli che avevano visto il loro Maestro straziato sulla croce. Si erano allontanati da Gerusalemme per lasciarsi alle spalle quel dolore e quell’ennesima delusione. Ancora una volta la vita aveva mostrato la sua triste verità: siamo tutti condannati alla morte. Ma poi alcune donne li avevano sconvolti, perché, andate al sepolcro di buon mattino, non avevano trovato il corpo di Gesù.
È vero, dal giorno della Resurrezione di Cristo tutto è cambiato: siamo destinati alla vita per sempre. Dio non ci lascia mai: è con noi nella vita e nella morte. Non si tira mai indietro e non ci abbandonerà mai. Cristo è stato inchiodato alla croce, ma non è più là. È andato oltre. È stato abbattuto, ucciso, deposto nel sepolcro, vinto dalla morte. Ma ora è vivo.

Certo, la croce resta. È la croce piantata dentro la vita di ogni vivente. È un lutto, una malattia, la fatica quotidiana, l’incomprensione tra le persone, l’ingiustizia, la tragedia di un incidente, di una catastrofe naturale o di una guerra. È la nostra croce, che facciamo tanta fatica ad abbracciare. Perché i conti non tornano mai.

Alla luce di quanto è accaduto agli inizi del cristianesimo, credo che ci siano solo due lenti attraverso cui leggere ciò che ci capita ogni giorno. Solitamente usiamo la lente dell’efficienza, quella che scava nel passato e nel presente alla ricerca di risultati, di successi e di traguardi raggiunti. È la lente di chi si mette al centro di tutto “io ho fatto, io ho faticato, io, io, io…”. Ma così rischiamo di selezionare ciò che funziona per essere presentabili davanti a noi stessi, agli altri e anche a Dio e scartiamo quei pezzi di vita più difficili da accogliere, perché non li comprendiamo fino in fondo e non sappiamo come affrontarli. Sì, perché la vita spesso ci mette in situazioni più grosse di noi senza chiederci il permesso e senza libretto di istruzioni. Se ci ostiniamo a misurare tutto ciò che viviamo con il metro dell’efficienza i conti non tornano mai, perché non sempre si studia e si prende un bel voto o si fa una battuta simpatica e gli altri cadono ai nostri piedi. Non sempre riusciamo ad ascoltarci e a capirci veramente. Non basta la forza di volontà per una vita felice e riuscita. Forse i discepoli hanno letto la fine della loro avventura dietro al Maestro con questa lente e ne sono rimasti profondamente delusi. E li comprendo.

Dev’esserci un’altra chiave per entrare nella vita: è la chiave della passione, parola che ci fa pensare subito alla sofferenza, ma che in verità rivela lo sguardo di Dio sulle nostre storie, sguardo carico di un amore impensabile per noi e assolutamente fuori dalla nostra portata. Qui, al centro, c’è Dio. Lui non passa in rassegna il nostro passato o il nostro presente alla ricerca di trofei per cui essere fiero di noi. Si affaccia sulla nostra vita a partire dal futuro, che è molto di più di ciò che saremo tra 20 anni. Il nostro futuro ha un nome: Resurrezione. Così tutto si ribalta perché la Passione di Cristo non è un racconto di cronaca con finale ad effetto. Se vogliamo dire sì alla Pasqua dobbiamo disarmarci e lasciarci riempire il cuore dalla qualità alta dell’Amore di Dio che ci ha amato “fino alla fine” [Gv 13,1]. Cioè fino all’ultimo respiro. Sapere di poter contare su un amore stabile così mi fa vivere. Nelle nostre vite non c’è più niente di definitivo: il lavoro, la famiglia… tutto porta il marchio della precarietà ormai. Ma così si vive nella totale insicurezza. Invece l’amore di Dio è fedeltà. Per la vita eterna.

“Fino alla fine” significa anche fino in fondo all’amore: non c’è amore più grande che dare la vita. Dio è per le cose grandi. Noi invece mettiamo il freno a mano, ci fermiamo molto prima delle nostre possibilità di amare, perché abbiamo paura di perderci. Diamo qualcosa di noi e ci accontentiamo. Dio invece più dona se stesso, più è se stesso.

“Fino alla fine” vuol dire anche fino alla meta: Cristo ci ama per tutto il tempo del nostro cammino finché non impariamo a vivere oggi, qui, da risorti. In un mondo che non tollera la croce e fa di tutto per costruire tangenziali per evitarla, Gesù sceglie di attraversarla fino all’ultimo respiro. Si fa buio su tutta la terra: Gesù precipita nella morte, ma la morte non può trattenere Colui che è vivo. La vita scoppia dalla pancia della morte e frantuma tutto. Scoppia la vita e porta con sé chi pensava di esserne inghiottito per sempre. Anche noi, che spesso, da vivi, siamo intrappolati nella morte. La Pasqua è già accaduta: ogni piccola morte che sembra toglierci il respiro non è la parola definitiva. Allora l’augurio che ci possiamo scambiare in questo tempo è di iniziare a vivere da salvati, facendo funzionare ogni briciola di vita in noi e non la morte. Solo così scopriremo che anche noi possiamo metterci in gioco e dare la vita fino in fondo, per essere un riflesso della Resurrezione per chi ci incontra.

di sr. Daniela Cristiana Galletto

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