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KOBE BRYANT, QUANDO MUORE UNA LEGGENDA

Per sintetizzare Kobe Bryant, uno di quei campioni che vanno oltre le discipline e le bandiere, basterebbero i numeri. Ma non dicono tutto. Non raccontano la bellezza del gesto e nemmeno la fatica di gestire la responsabilità di essere simboli.


Gli antichi per darsi un senso di morti così si erano inventati il mito di Ganimede, il coppiere degli Dei, rapito in cielo per troppa bellezza. Ed è questo in fondo che fanno i campioni, producono bellezza, a loro modo arte: gesti spettacolari che incantano perché impensabili per corpi e coordinazioni da comuni mortali. Kobe Bryant, scomparso troppo presto il 26 gennaio in un incidente in elicottero con la figlia Gianna di 13 anni, era per la pallacanestro Nba quello che Federer è per il tennis, Dettori per l’ippica, Maradona per il calcio, Bolt per l’atletica, Phelps per il nuoto: una leggenda planetaria, al di là di maglie e bandiere, (anche se Kobe ne ha avuta sempre e solo una, quella leggendaria gialla e viola dei L.A. Lakers). Parlano per lui i numeri: ha fatto in tempo per una manciata di ore a complimentarsi con LeBron James che gli ha soffiato il terzo posto come miglior marcatore di ogni tempo in Nba, subito dietro Kareem Abdul Jabar e Karl Malone.

Ma i numeri non dicono tutto. Anche se le cronache sportive ne sono piene, non è per la matematica che amiamo lo sport e i suoi campioni. Le medie-punti (per Bryant quasi 25 a incontro) e le statistiche aiutano, certo, a leggere le partite e raramente mentono: spiegano chi vince e perché. Ma non dicono tutto: non dicono della morbidezza delle mani che, accarezzando la palla a spicchi, infilano canestri impossibili senza neanche scuotere la retina, non dicono della balistica di certi tiri che sfidano le leggi della fisica ed entrano anche se non dovrebbero, non dicono dell’agilità di farfalla in un corpo di gigante, non dicono del coraggio che serve per prendersi la responsabilità di tirare cadendo all’indietro, quando a tutti gli altri tremano le mani, e infilare una tripla che riacciuffa la squadra sull’orlo della sconfitta, sul filo del cronometro che corre via. Non dicono degli occhi di tigre, della fame atavica di chi si butta su ogni rimbalzo.

Se fosse solo questione di numeri, tutti i grandi campioni sarebbero fatti con lo stampino e non unici e irripetibili come invece sono; se fosse solo una faccenda di freddo computo di vittorie e sconfitte, Gilles Villeneuve non sarebbe neanche passato alla storia. E invece ancora 38 anni dopo di lui capita di trovare la sua foto in un ristorante in cui non è mai stato. Accade perché la passione per lo sport passa per la chimica delle emozioni, che arriva dove la matematica non può arrivare, e quando arriva non ha confini, comunica in modo immediato a tantissime persone diversissime tra loro.

Quando scompare, nel pieno della vita, un campione che ha dispensato bellezza pura si confondono realtà e mito. Il lutto diventa rito collettivo e chissà se la partecipazione mondiale che ne consegue ferisce ulteriormente o, invece, in qualche modo minimamente allevia la solitudine di chi, in tutto questo, deve fare i conti con il lutto vero: Bryant lascia una moglie Vanessa e altre tre figlie bambine.

I numeri non dicono neanche del rischio che corre chi è leggenda dentro il campo di illudersi che siano le righe bianche la misura del mondo, di fare l’errore di sfiorare la tentazione dell’onnipotenza anche lontano dal canestro, dove le misure sono diverse e i rimbalzi della vita enormente più complicati. È un rischio che Kobe Bryant ha corso e pagato, subendo nel 2003 un controverso processo per stupro, concluso con un’archiviazione e un risarcimento danni da cui nessuno è uscito bene, e che ci impone di riflettere sullo sport come sistema, focalizzato al campo, e affezionato all’idea di creare superuomini che non devono chiedere mai e, invece, il più delle volte sono soltanto ragazzi di straordinario talento che quasi nessuno si preoccupa di preparare a gestire le responsabilità di una vetrina troppo più grande di loro. Perché è vero che in Nba e in Eurolega conta quasi solo vincere, ma poi bisogna uscirne e vivere in un mondo dove ci vuole niente a commettere infrazione di passi.

Non per caso Ettore Messina, uno dei migliori allenatori di pallacanestro al mondo e una delle migliori persone da incontrare nello sport oggi presidente-allenatore dell’Armani Exchange Milano, ripete continuamente ai ragazzi che incontra nelle scuole, in campo e nella vita di crescere guardando oltre il ferro e la retina. Glielo ripete anche quando sono già campioni e devono portare a canestro le sue idee.

Messina - che ricorda Kobe come "un super talento naturale" - ha costruito con Bryant un rapporto durato fino a ieri nel 2011, durante la sua prima esperienza da assistente allenatore ai L.A. Lakers. Come con gli altri migranti italiani nel campionato professionistico del Nord America, Kobe con lui amava parlare l’italiano che aveva imparato da bambino, al seguito del padre cestista nel nostro campionato. Che si sappia solo una volta Messina e Bryant hanno parlato da soli in inglese. Come racconta Ettore , nel libro Basket, uomini e altri pianeti, scritto con Flavio Tranquillo per Add e dedicato a quella stagione californiana, è stata una di quelle volte in cui si affrontano argomenti seri che devono stare nel chiuso di una stanza.

Elisa CHIARI

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