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Giovanni Paolo II e il cammino verso il Documento sulla fratellanza

Il 4 febbraio 2019, ad Abu Dhabi, l’inattesa firma della Dichiarazione da parte del Papa e del Grand Imam di al- Azhar: punto di arrivo di un cammino segnato in particolare da Wojtyla, con i due incontri di Assisi, il Sinodo per il Libano e la lettera apostolica “Novo Millennio Ineunte”.
Giovanni Paolo II ed il cammino verso il Documento sulla fratellanza

Il lungo cammino che ha condotto al Documento sulla fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dal Grand Imam dell’Università islamica di Al-Azhar, lo sheikh Ahmed al-Tayyeb, ha prodotto nel mondo islamico un aggiornamento che ha modificato prassi e tradizioni vecchie di secoli. Nel mondo cattolico la Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate poneva già nel 1965 le basi per la firma del Documento di Abu Dhabi affermando che: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». 

I musulmani, da parte loro, possono rivendicare il fondamento coranico del documento firmato ad Abu Dhabi, visto che nel loro testo sacro è scritto: «Dialogate con belle maniere con la Gente della Scrittura, eccetto quelli di loro che sono ingiusti. Dite (loro): Crediamo in quello che e’ stato fatto scendere su di noi ed in quello che e’ stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio ed è a Lui che ci sottomettiamo…» (Corano al-‘Ankabut, 46). 

Per questo sia gli uni sia gli altri riconoscono una indiscutibile continuità nel passaggio cruciale del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune di Abu Dhabi: «Ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano».

Eppure è impossibile non vedere nella firma del Documento qualcosa di epocale per il Medio Oriente e per le società in maggioranza islamiche. Dopo secoli in cui, nonostante il dettato coranico e la Costituzione di Medina, attribuita a Maometto, le società islamiche si sono organizzate in modo difforme, definendo “protette” le minoranze religiose monoteiste considerate di seconda classe, ad Abu Dhabi l’Islam ha ripreso l’impostazione enunciata a Medina. In mezzo però c’è stata una prassi secolare. Con il Documento la parte musulmana riconosce il diritto alla piena cittadinanza come fondamento e diritto di tutti, anche dei non credenti. Dunque dopo tanti secoli si torna alla libertà di coscienza («Non c’è costrizione nella religione», Corano, al-Baqarah, 256), e non indicandosi più l’obbligo di dichiarasi credenti non appare più impossibile la conversione. 

Questo obiettivo storico non poteva essere raggiunto con un documento, serviva un processo. E la bussola della piena cittadinanza è stata scelta dalla Chiesa cattolica, praticamente e concretamente, sin dal dopo Concilio. Il cammino verso la cittadinanza si inquadra chiaramente in quello verso il riconoscimento della fratellanza, come indicato da due date: il 1986 e il 1991. 1986, la data del grande incontro di Assisi, 1991 l’anno della conseguente scelta cittadina di convocare un sinodo straordinario della grande chiesa universale sul piccolo Libano. 

La preghiera di Assisi del 1986 ha visto convergere nella città di San Francesco i leader di tutte le religioni in un evento che appariva impensabile. Eppure oggi è estremamente importante ricordare che quell’impossibilità era stata in certo senso superata nel Concilio; il padre conciliare Hélder Camara aveva prospettato per la chiusura del Concilio un evento con esponenti di tutte le religioni. Giovanni Paolo II coniò il termine “Spirito di Assisi” per indicare un modello di dialogo tra religioni basato sulla fraternità. 

Non mancarono le polemiche sul rischio di sincretismo e il professor Andrea Riccardi, nella sua biografia di Karol Wojtyla, ha ricordato che «il cardinal Oddi parla di episodio folkloristico e critica il fatto che sia stata data ai buddhisti una chiesa per pregare». Erano gli anni degli incontri tra Reagan e Gorbaciov, ai quali seguirono l’abbattimento del muro di Berlino e gli anni Novanta, che portarono nuove pagine aspre e anche l’elaborazione della teoria dello «scontro di civiltà». Dopo il tragico attentato dell’11 settembre, il 24 gennaio del 2002, Giovanni Paolo II invitò nuovamente tutti i leader religiosi ad Assisi, «a pregare per il superamento delle contrapposizioni e per l’autentica pace. Ci si vuol trovare insieme, in particolare cristiani e musulmani, per proclamare davanti al mondo che la religione non può diventare mai motivo di odio, di conflitto e di violenza».

La conferma del cammino intrapreso dopo il primo incontro di Assisi si era già avuta negli anni Novanta. Visti con occhi mediorientali sono gli anni del dopo guerra libanese. Un interminabile conflitto ha infatti squassato il Libano dal 1975 al 1990, producendo alcune delle pagine più dolorose e fratricide della storia contemporanea araba. Tra i tanti conflitti che si sono intrecciati in Libano in quei quindici anni c’è stato quello tra musulmani e cristiani, che non era però realmente tale visto che è stato anche un conflitto tra cristiani. 

È stato questo conflitto a trasformare la città più moderna ed europea del mondo arabo, Beirut, in un moderno Colosseo, che Giovanni Paolo II, già nel 1991, ha deciso di indire un Sinodo straordinario per il Libano. La decisione è stata coraggiosa, rischiosa, come la scelta del Papa di invitare delegazioni di tutte le comunità di fede libanesi: se il problema era anche quello di contribuire alla rinascita di una comunità nazionale i cattolici libanesi non potevano farlo senza relazionarsi agli altri cristiani, ai sunniti, agli sciiti, ai drusi e così via. 

Quando l’invito di Giovanni Paolo II giunse a Beirut, il leader sunnita Rafiq Hariri si sarebbe immediatamente reso conto dell’enormità della decisione di Roma, sollecitando i leader religiosi sunniti a rispondere, immediatamente e chiaramente. Così decise di fare una delle più importanti personalità della storia recente dell’ortodossia, il vescovo George Khodr. I racconti dei protagonisti di quei tempi convergono nel riferire che i leader religiosi musulmani erano sorpresi, ma anche perplessi: «Noi siamo grati, ma come possiamo accettare? Non siamo cristiani…». Hariri si affidò al lavoro del suo collaboratore per gli affari religiosi, Muhammad Sammak, oggi segretario generale dello Spiritual Islam Summit e membro dell’ufficio di presidenza di World Conference Religion for Peace. Intanto in Vaticano proseguiva il lavoro sull’agenda che avrebbe portato Giovanni Paolo II a pronunciare la frase che ne avrebbe fatto un mito per tanti libanesi: «Il Libano è un messaggio». Un Paese dilaniato da un’interminabile guerra civile, anche grazie ai vescovi che riuscivano a sottolineare nei lineamenta sinodali che la Chiesa aveva visto con dolore i suoi figli «uccidere, essere uccisi e uccidersi tra di loro», diveniva «messaggio» della nuova strada regionale da scegliere.

La qualità e la forza della scelta di Giovanni Paolo II è percepibile ancora oggi da un dettaglio. Dai tempi della guerra civile a Beirut si parla ancora dell’esistenza di un versante musulmano della città, adiacente il centro, proprio come sull’altro lato quello cristiano. Salendo dal centro su una delle più importanti arterie si può ancora vedere ciò che resta di un palazzo distrutto dalla guerra e lasciato lì come monito e memoria. Poco dopo, in pieno versante musulmano, si arriva in una piazza dove al centro c’è l’unica statua che nell’immenso spazio che va dall’Indonesia al Marocco ricorda un Papa, Giovanni Paolo II. 

Ma per costruire la prospettiva comune il Pontefice polacco era perfettamente consapevole che la comune e pari cittadinanza era la scelta essenziale. Ma come porne le basi, culturalmente? La prima esigenza era quella di superare un equivoco: chi sono i cristiani del Medio Oriente? Se loro si percepivano facilmente come discriminati, per i musulmani erano quinte colonne del colonialismo europeo, francese e britannico in particolare. In quegli anni decisivi per definire l’ordine post-ottomano alcuni cristiani del Libano offrirono il fianco a questo pregiudizio con il mito del fenicianesimo, alimentato soprattutto da studiosi francesi. 

Per questo alcuni preferivano parlare in francese e nella loro narrativa definivano il Libano come un Paese non arabo. Questo Libano “fenicio” guardava i musulmani come il suo intellettuale più noto, Charles Corm: «Amico musulmano, ascolta il mio candore: io sono il vero Libano, autentico e devoto». Ecco perché si stabilì che il patriarca maronita, per protocollo, venisse accolto a Parigi con gli onori riservati a un capo di Stato. 

È evidente che la comune cittadinanza nella prospettiva di una vera fratellanza nazionale richiedeva una scelta più vicina a quella del primo Presidente libanese, Bishara al Khoury, fautore del Patto Nazionale. L’intento è indicato nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Una speranza nuova per il Libano: «È necessario discernere prima di tutto ciò che unisce i libanesi in un unico popolo, in una medesima fraternità che, in Libano, si manifesta ogni giorno specialmente nella convivenza». È in questa prospettiva che Giovanni Paolo II fece una scelta chiara, foriera di importantissime conseguenze: «Vorrei insistere sulla necessità per i cristiani del Libano di mantenere e di rinsaldare i loro legami di solidarietà con il mondo arabo. Li invito a considerare il loro inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei Paese arabi, un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’Islam. Vivendo in una medesima regione, avendo conosciuto nella loro storia momenti di gloria e momenti di difficoltà, cristiani e musulmani del Medio Oriente sono chiamati a costruire insieme un avvenire di convivialità e di collaborazione, in vista dello sviluppo umano e morale dei loro popoli».

Se questa bussola è stata pienamente confermata e ribadita dal Sinodo del 2010, nel quale Benedetto XVI indicò chiaramente la cittadinanza e la libertà di coscienza come assi portanti della costruzione del nuovo in Medio Oriente, questa convivialità costruita sulla cittadinanza è la vera grande novità del Documento sulla fratellanza umana: «Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità». Questa novità davvero epocale segue un’indicazione importante, esprimendosi i firmatari anche «in nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante».

Tale necessità appare proprio del nuovo millennio, segnato dall’allargarsi della forbice tra ricchi e poveri. Anche questa esigenza è ben presente nell’importante Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte che Giovanni Paolo firmò il 6 gennaio 2001: « Il Giubileo è stato anche - e non poteva essere diversamente - un grande evento di carità. Fin dagli anni preparatori, avevo fatto appello ad una maggiore e più operosa attenzione ai problemi della povertà che ancora travagliano il mondo. Un particolare significato ha assunto, in questo scenario, il problema del debito internazionale dei Paesi poveri. Nei confronti di questi ultimi, un gesto di generosità era nella logica stessa del Giubileo, che nella sua originaria configurazione biblica era appunto il tempo in cui la comunità si impegnava a ristabilire giustizia e solidarietà nei rapporti tra le persone, restituendo anche i beni materiali sottratti».

RICCARDO CRISTIANO

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