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L’arte ci educa a uno sguardo contemplativo

Le parole di Papa Francesco agli incontri con detenute e artisti nella visita a Venezia.


È iniziata con l’incontro con le detenute della Casa di reclusione Donne Venezia sull’Isola della Giudecca la visita di Papa Francesco alla città lagunare, avvenuta ieri mattina. Proprio nel carcere femminile è ospitato il padiglione della Santa Sede alla Biennale d’Arte di Venezia di quest’anno, dunque in una realtà dura, con problemi che generano sofferenza nelle persone qui arrivate per vie dolorose e a causa di errori che lasciano ferite e cicatrici. Se la loro dignità non è messa in isolamento, questo posto può però diventare un luogo di cura e rinascita morale e materiale, perché ognuno di noi ha un dono da condividere.

«La permanenza in una casa di reclusione può segnare l’inizio di qualcosa di nuovo, attraverso la riscoperta di bellezze insospettate in noi e negli altri, come simboleggia l’evento artistico che state ospitando e al cui progetto contribuite attivamente; può diventare come un cantiere di ricostruzione, in cui guardare e valutare con coraggio la propria vita, rimuoverne ciò che non serve, che è di ingombro, dannoso o pericoloso, elaborare un progetto, e poi ripartire scavando fondamenta e tornando, alla luce delle esperienze fatte, a mettere mattone su mattone, insieme, con determinazione».


Spostatosi alla chiesa della Maddalena, il Papa ha incontrato gli artisti che partecipano alla Biennale d’Arte di Venezia per mandare a tutti un messaggio, ha detto nel suo discorso: il mondo ha bisogno di voi. Questo perché l’arte è come una città rifugio, che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere tutti, a cominciare dagli ultimi. L’arte, infatti, ci educa a uno sguardo non oggettivante e superficiale, ma contemplativo.

«Le città rifugio sono un’istituzione biblica, menzionata già nel codice deuteronomico (cfr Dt 4,41), destinata a prevenire lo spargimento di sangue innocente e a moderare il cieco desiderio di vendetta, per garantire la tutela dei diritti umani e cercare forme di riconciliazione. Sarebbe importante se le varie pratiche artistiche potessero costituirsi ovunque come una sorta di rete di città rifugio, collaborando per liberare il mondo da antinomie insensate e ormai svuotate, ma che cercano di prendere il sopravvento nel razzismo, nella xenofobia, nella disuguaglianza, nello squilibrio ecologico e dell’aporofobia, questo terribile neologismo che significa “fobia dei poveri”. […] Vi imploro, amici artisti, immaginate città che ancora non esistono sulla carta geografica: città in cui nessun essere umano è considerato un estraneo.».


FONTE: RETESICOMORO

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