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Un abbraccio di fratellanza. Ma adesso tocca anche alla politica di Elisabetta LO IACONO

Fonte: Torre dei Venti

Ancora una volta la luna ha fatto capolino nello spicchio di cielo sopra il Vaticano per scrutare una pagina che entrerà, indipendentemente dagli esiti, nella storia mondiale.
Era stato san Giovanni XXIII a pronunciare, la sera dell'11 ottobre del 1962 all'apertura del Concilio Vaticano II, quel celebre discorso. "Si direbbe che persino la luna si è affrettata, stasera a guardare questo spettacolo".  
Ieri sera, volgendo lo sguardo al cielo, si notava distintamente una luna quasi espressiva sovrintendere allo storico abbraccio tra papa Francesco, il presidente dello Stato di Israele Shimon Peres, quello dello Stato di Palestina Mahmoud Abbas e il Patriarca ecumenico Bartolomeo I.

Tutti insieme, in quel triangolo verde che ha colorato di speranza il futuro dei popoli israeliano e  palestinese, del Medio Oriente ma, più in generale, di ogni parte del mondo stretta nella morsa di conflitti.

Un momento di preghiera e di invocazione alla pace, voluto da papa Francesco e annunciato nel corso del recente viaggio in Terra Santa, con due rappresentanti di popoli eternamente in conflitto, incapaci di trovare ciò che unisce piuttosto che rinnovare le ferite di ciò che divide.

Non un vertice politico è stato subito sottolineato, bensì un'occasione per ritrovarsi e pregare, prima la comunità religiosa ebraica, poi la cristiana e quindi la musulmana, in quel triangolo che è già storia e al cui vertice sedevano, a fianco di papa Francesco, quei due presidenti che il mondo vorrebbe riconoscere come costruttori di pace. Alle loro spalle il cupolone della basilica di San Pietro illuminato dagli ultimi raggi del sole, in questa giornata che ha voluto far sorgere nuove speranze di pace.
Pace, Shalom, Salam le tre invocazioni che hanno risuonato per tutta la serata nei Giardini vaticani, tra partecipanti che nei loro abiti e simboli rappresentavano le differenze di mondi diversi ma che, al netto di calcoli di convenienza politica e di immagine, potrebbero portare in dote il reale desiderio di cambiare, di dimostrare coraggio, di divenire fratelli.

Lo ha ripetuto più volte papa Francesco durante il suo intervento che ha fatto seguito ai tre momenti di preghiera, cadenzati a loro volta da un'espressione di lode a Dio per il dono della creazione, da una richiesta di perdono per i peccati contro Dio e il prossimo e da una invocazione affinché venga concesso il dono della pace.


"Per fare la pace ci vuole coraggio - ha sottolineato papa Francesco - molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all'incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d'animo".

Una prova di coraggio che riguarda certamente i rapporti israelo-palestinesi ma, al pari, ogni conflitto o instabilità pronta a deflagrare e nella quale ognuno, negli svariati contesti sociali e politici, è chiamato a essere costruttore di fratellanza. Non a caso l'incontro è stato aperto dal motto francescano "Il Signore vi conceda la pace".
Una invocazione alla pace che è stata anche un evidente richiamo al senso di responsabilità e a un dovere di amore nei confronti delle generazioni future: "Signori Presidenti - ha sottolineato papa Francesco - il mondo è un'eredità che abbiamo ricevuto dai nostri antenati, ma è anche un prestito dei nostri figli: figli che sono stanchi e sfiniti dai conflitti e desiderosi di raggiungere l'alba della pace; figli che ci chiedono di abbattere i muri dell'inimicizia e di percorrere la strada del dialogo e della pace perché l'amore e l'amicizia trionfino".

Pace, per non evocare gli orrori della guerra che dovremmo sempre sentire martellanti in noi, come un monito costante, "perché la vera pace diventi nostra eredità presto e rapidamente" e per questo "dobbiamo adoperarci con tutte le nostre forze per raggiungerla", "anche se ciò dovesse richiedere sacrifici o compromessi" ha detto Shimon Peres. Invocazione seguita da quella di Mahmoud Abbas, nella consapevolezza di come la pace in Terra Santa non sia fine a se stessa ma "se la pace si realizza a Gerusalemme, la pace sarà testimoniata nel mondo intero" ha detto il leader palestinese citando san Giovanni Paolo II.

Dopo quasi due ore si sono spenti gli echi della musica che ha accompagnato i momenti di preghiera, ogni frase ha messo il punto conclusivo, le braccia hanno sciolto gli intrecci di abbracci e le vanghe hanno gettato le ultime zolle di terra su quell'olivo piantato tutti assieme, a ricordo della giornata.


Un incontro a carattere religioso e non politico, durante il quale si è pregato in questo triangolo verde del Vaticano come in tutto il mondo ma è indubbio che adesso anche la politica dovrà fare la sua parte. Dovrà attingere a quelle invocazioni per dare consistenza alle parole e agli impegni, per fare della speranza una realtà, per dimostrare il coraggio di essere fratelli non solo in una calda giornata romana e sotto le telecamere, ma soprattutto nei vicoli di strade macchiate dalla violenza e dall'intolleranza. 

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