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Il Papa del secolo breve, il Novecento nel pontificato di Giovanni Paolo II

A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, un’analisi degli anni di Karol Wojtyla sul soglio di Pietro e del ruolo svolto alla fine della Guerra fredda.


Sono passati trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e ne sono passati quattordici dalla scomparsa di Giovanni Paolo II, il Papa che con la sua storia personale e il suo indiscutibile carisma ha incrociato, spesso sovrapponendovisi, le molte luci e le altrettante ombre del secolo breve. E allora una chiave di lettura interessante per ricordare questi sei lustri che ci separano dalla fine della Guerra Fredda è proprio quella di ripercorrerli attraverso l’azione del Pontefice polacco, la cui influenza si è allungata sul mondo, non più diviso in due ma in mille nuovi bellicosissimi fronti, ben oltre la morte. Aveva ragione Mikhail Gorbaciov, l’ultimo e definitivo leader sovietico, quando affermava che: «Senza Karol Wojtyla non si capisce ciò che è accaduto in Europa alla fine del ventesimo secolo»?

Nei primi giorni di aprile 2005, mentre i potenti della terra si mettevano in fila per l’ultimo saluto all’ex operaio degli stabilimenti di soda Solvay asceso al trono di Pietro, le migliori penne dell’epoca si cimentavano nell’impresa titanica di riassumere in pochi paragrafi la Storia che lungi dall’essere finita alla Porta di Brandeburgo, come aveva vaticinato Fukuyama, si era invece rimessa a correre al galoppo già due anni dopo nei Balcani. Fu il Papa che gettò le basi di un nuovo umanesimo e costruì sentieri prima inimmaginabili per il dialogo tra le Chiese e le religioni oppure fu il Papa del ritorno a una dottrina ultra-conservatrice che fece rimpiangere e non solo ai laici gli anni del predecessore Paolo VI, il “liberale” erede del messaggio aperturista di Giovanni XXIII?

«Giovanni Paolo II riuscì ad essere “un ponte” per la capacità che aveva di vivere la propria fede come testimonianza. Testimone di Dio, della sua verità, del suo ingresso nella storia umana», spiega lo scrittore Gian Franco Svidercoschi, inviato dell’Ansa al Concilio Vaticano II e poi vicedirettore de L’Osservatore Romano che con Karol Wojtyla collaborò alla stesura del libro “Dono e Mistero”.Di fatto l’esistenza stessa del Papa polacco ha assunto la forma e la forza della testimonianza.


Non aveva neppure vent’anni all’inizio della Seconda guerra mondiale e si era trovato a vivere sulla propria pelle lo «scellerato patto» Ribbentrop-Molotov: fuggito da Cracovia con il padre per scappare dai nazisti dovette tornare indietro perché da Est avanzavano le truppe sovietiche. Aveva lavorato in una cava di marmo, era scampato alla deportazione in un campo di concentramento, aveva deciso di prendere i voti. E, da ministro di Dio, aveva conosciuto da dentro i due spietati totalitarismi: il nazismo prima, con i lager, la Shoah, la scomparsa di tanti amici ebrei, e poi il comunismo, con l’ateismo di Stato, il regime di terrore, l’oppressione. Lui stesso, dopo l’elezione al Soglio di Pietro, avrebbe così spiegato il peso dell’esperienza novecentesca nella propria educazione sentimentale, «È facile capire la mia sensibilità per la dignità di ogni persona umana e per il rispetto dei suoi diritti, a partire dal diritto alla vita».

Molti contemporanei però, non sarebbero partiti esattamente dal diritto alla vita per difendere la dignità umana. E non perdonarono mai al Pontefice quell’appello a non abortire rivolto alle donne bosniache stuprate dai miliziani serbi in nome della pulizia etnica che dal 1991 aveva preso a insanguinare i Balcani con una guerra civile a cui pure, secondo la lettura di parecchi analisti geopolitici, Giovanni Paolo II aveva in qualche modo indirettamente contribuito riconoscendo per primo l’indipendenza della cattolica Croazia dalla ex Jugoslavia titina sin dall’Angelus del 1991 e il pronunciamento sulle «legittime aspirazioni del popolo croato». Poi certo, il Papa fu anche tra i pionieri dell’appello alla riconciliazione quando nel 1994 parlò a Zagabria di perdono e convivenza anticipando quanto di fatto sarebbe accaduto dieci anni dopo. Ma quel «prima la vita» segnò in modo indelebile le coscienze occidentali insieme alla notizia delle tante suore a loro volta incinta dei nemici arrivati da Belgrado. Né, alcuni anni dopo, passò inosservata la cerimonia di beatificazione di Alojzije Stepinac, il controverso arcivescovo croato considerato da alcuni un collaborazionista del regime ustascia di Ante Palevic e da altri un martire della dittatura comunista jugoslava.

Apologeti e detrattori concordano comunque sul fatto che Karol Wojtyla sia stato e resti un’icona del Novecento, del suo debutto funesto e del promettente epilogo anticipato dalla dissoluzione della galassia sovietica. Un uomo di movimento più ancora che d’azione. L’ex direttore de L’Osservatore RomanoSvidercoschi vede negli oltre cento viaggi internazionali compiuti durante il suo mandato la sintesi compiuta di parola e presenza fisica: «L’osservatorio da cui partiva era universale, gli permetteva di conoscere meglio il dilagare delle povertà, le ingiustizie, le violenze. Pur partendo da una dimensione spirituale ed evangelica, Giovanni Paolo II denunciò, spesso con parole terribili e invocazioni all’intervento divino, la condizione disumana in cui vivevano interi popoli. Lui solo, di fronte al silenzio pavido dei Grandi della terra, a testimoniare la speranza in un futuro potenzialmente diverso. “Tutto può cambiare”, diceva spesso, convinto che l’uomo potesse mutare il corso degli eventi. Sarebbe perciò storicamente falso restringere l’opera di cambiamento che Wojtyla riuscì a realizzare alla caduta del Muro di Berlino».

In realtà fu la sua prima visita in Polonia da Papa a segnare il passo del secolo scorso. Era il 1979 e ad attenderlo in piazza della Vittoria, a Varsavia, c’erano un milione di persone mute sotto una gigantesca croce eretta per l’occasione: nessun Paese comunista aveva mai assistito a nulla di simile. E lì davvero il Pontefice ebbe un’influenza determinante nell’incoraggiare la nuova (santa) alleanza tra operai e intellettuali intorno al sindacato Solidarnosc. La Polonia di oggi è in parte figlia di quel cambio di stagione anche se, col senno di poi, molti avrebbero sperato in un esito differente e le donne, in particolare, le tante che nei mesi scorsi hanno manifestato in abiti neri contro le politiche conservatrici e paternaliste del governo in carica, denunciano con l’arretratezza del dibattito su temi come l’aborto l’eredità di quel peccato originale che vide la croce guidare la spallata finale al tramonto del sol dell’avvenire fino ad evitare il rischio del bagno di sangue ma anche fino ad accaparrarsi l’egemonia culturale a venire. Né, in fondo, avrebbe potuto essere differente l’approccio alla questione femminile di un Pontefice che si sarebbe sempre schierato contro l’ordinamento ecclesiale delle donne e contro quella chiesa “riformata” di cui erano esempio «le suore radical-femministe americane». 

Luci ed ombre insomma, nel senso più profondo dell’espressione. È indubbio infatti che Giovanni Paolo II ebbe un peso geopolitico di rilievo: lo ebbe nel processo di democratizzazione dell’America Latina sin dalle visite nel Paraguay del dittatore Alfredo Stroessner e a Cuba (entrambe con chiari appelli alle libertà negate), nel rivendicare il diritto dei Paesi africani ormai indipendenti ad una crescita economica e culturale (anche se non va dimenticato il suo impegno contro la contraccezione in un continente decimato dall’Aids), nell’accendere i riflettori su un’Asia dominata dal gigante cinese e nel sostenere, là dove la Chiesa era libera di agire, la missione dei vescovi a favore della giustizia e del cambiamento sociale. Di fatto un Papa per certi versi “no global”, le cui parole contro la povertà circolavano non a caso negli ambienti cattolici del multiforme popolo di Genova 2001.

«Va ricordato che fu Giovanni Paolo II il primo a denunciare come la scomparsa del marxismo non dovesse significare la vittoria del sistema capitalistico e che, a muro di Berlino caduto, fu proprio contro l’ideologia liberista che il Papa rivolse gli strali più duri del suo insegnamento sociale», puntualizza Svidercoschi. L’impronta di quella spinta al superamento del materialismo storico senza cedere al materialismo consumistico fu forte in Polonia, ma si allargò in cerchi concentrici ad ampio raggio. Il risultato è netto sul piano storico ma molto meno su quello culturale, dove l’accento sul rispetto della dignità umana non fa matematicamente rima con progressismo. Anzi. Né, ad onor del vero, il Papa polacco mascherò mai le sue posizioni tradizionaliste in contrapposizione alle pulsioni libertarie della Chiesa “catto-comunista” post ’68. A questo proposito qualcuno ricorderà un controverso articolo firmato sul Guardian dal critico letterario Terry Eagleton in cui all’indomani della morte di Wojtyla si associava il conservatorismo morale del Papa, eletto nel 1978, alle politiche economiche reazionarie della contemporanea ascesa delle destre mondiali, da Ronald Reagan alla Thatcher.

«Il corso della Storia sarebbe stato lo stesso, perlomeno quello dell’Europa orientale, se i colpi sparati da Alì Agca fossero stati mortali?», si chiede Svidercoschi, ricordando a questo proposito un episodio vissuto in prima persona. «Era il dicembre del 1982 – racconta -, un anno dopo il colpo di Stato del generale Jaruzelski. Andai in Polonia per capire la situazione per conto del mio giornale. Al ritorno monsignor Stanislaw Dziwisz, allora segretario di Giovanni Paolo II, mi chiese di riferire al Papa le mie impressioni dal momento che si stava progettando il suo imminente secondo viaggio in Polonia e tutti erano contrari a rischiare che con la sua visita avallasse, sia pur senza volerlo, la repressione. Ci vedemmo il primo gennaio nella cappella della Deposizione, a San Pietro. Finita la messa per la Giornata della pace, il Papa si tolse i paramenti liturgici e cominciò a chiedermi che cosa ne pensassi. Gli spiegai che la Polonia era come una persona a cui avessero dato quantità enormi di ossigeno salvo poi chiudere i rubinetti: stava soffocando. Dissi che c’era bisogno che andasse in Polonia perché solo lui sarebbe stato credibile nel pronunciare parole di speranza. Il Papa, con gli occhi già carichi di un filo d’ironia, insisteva nell’affermare di non poter fare quel viaggio perché tutti lo sconsigliavano. Andammo avanti per qualche minuto. Io sempre più disorientato e lui in apparenza timoroso di stringere la mano a un dittatore. Finché si avvicinò e disse: “Io ho già deciso di andare!”. Sei mesi dopo Karol Wojtyla andò in Polonia. Raccontano che mentre scendeva dall’aereo il generale Jaruzelski, nel salutarlo, gli fece capire che il previsto incontro con “l’elettricista”, l’appellativo di Lech Walesa, non sarebbe stato possibile. Il Papa si fermò e accennando a risalire sulla scaletta mormorò: “Nessun problema. Io torno in Vaticano”. Jaruzelski rimase un attimo impietrito poi capì, “Ma no, Santo Padre, cercheremo di fare tutto il possibile”».

La Storia sarebbe stata sicuramente diversa se Alì Agca avesse ucciso Giovani Paolo II. A fermarlo è stata invece l’implacabilità del male mentre il nuovo Millennio gettava già sull’occidente e sul mondo le prime luci sinistre di un futuro meno radioso di quanto la fine del comunismo avesse fatto sperare. «Come si comporterebbe oggi Papa Wojtyla con il patron del partito ultraconservatore Diritto e Giustizia, Jarosław Aleksander Kaczynski?», si chiedono i polacchi che a migliaia sono scesi in piazza a gennaio per manifestare contro l’assassinio del sindaco liberal di Danzica Pawel Adamowicz, la cui morte viene inquadrata nel clima di contrapposizione rabbiosa e di odio maturato negli ultimi anni nel Paese? La risposta è sepolta con il Novecento.

GIACOMO GALEAZZI - FRANCESCA PACI

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