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Pensando al suo triduo pasquale LE PAROLE ULTIME di Renato Brucoli

La parola ultima, don Tonino Bello non l’ha ancora pronunciata. Nato 83 anni fa e morto da 25, continua a vivere e operare. La sua attualità? È nel fatto che abita il cuore del popolo – lì va cercato–, ed è figura in assonanza – per fede, cultura, gesti, visione della Chiesa e del mondo – con Papa Francesco, che non a caso verrà in Puglia a onorarlo, ad Alessano e Molfetta, il 20 aprile. Segni inequivocabili che don Tonino è ancora di riferimento e all’opera.
Chi fa della propria vita un progetto d’amore, è destinato all’eternità. E la sua santità, finora acclarata vox populi, ma che un giorno sarà dichiarata dalla Chiesa, lo lega alla ferialità della storia umana. Questo è il suo Paradiso. Perciò la sua memoria non può che confrontarsi, al momento, con le parole ultime scritte nel manifesto della sua esistenza. Ne estrapolo due, rispettivamente annotate nel mio ricordo personale e in un atto pubblico.



Il ricordo personale

Il saluto di congedo mi è rimasto inciso nella mente a lettere di fuoco. Come tanti altri episodi vissuti durante la frequentazione intercorsa con lui.
Qualche giorno prima che sopraggiungesse “sorella morte”, visitato in episcopio, mi ha ricordato i momenti più significativi della nostra collaborazione, intesa a incrementare l’informazione diocesana e le attività Caritas. Mi ha anche dettato alcuni “compiti a casa”, raccomandazioni per il futuro.
Fino a quel momento il nostro incontro aveva avuto le caratteristiche di un bilancio di vita improntato alla reciproca gratitudine, caratterizzato da intensa commozione. Don Tonino disponeva, però, di una marcia in più, nel senso che si riservava quasi sempre un guizzo finale. Infatti mi ha chiesto di poter incontrare mio figlio in fasce.
Non era con me perché non aveva ancora compiuto neppure un anno di vita, e mi ritornava difficile trasportarlo in auto a Molfetta. Però quel... «mi piacerebbe salutare anche Francesco, fargli una carezza, indirizzargli un augurio», chiesto con tanta dolcezza, mi ha fatto rientrare precipitosamente a Terlizzi per essere nuovamente da lui dopo neppure mezz’ora: detto fatto!
A dire il vero il piccolo era nella fase della crescita in cui si usano molto le mani, e in modo iperattivo, come elemento di conoscenza, e io ero dunque preoccupato che, una volta al cospetto del vescovo, potesse graffiargli il volto o tirargli i capelli come faceva con noi familiari.
Giunti da lui, ci siamo inginocchiati per collocare i nostri volti alla stessa altezza del “malato” ormai definitivamente allettato, in modo da stargli vicino, poterci guardare negli occhi, ascoltarci bene.
Don Tonino ha immediatamente preso la parola: «Che bel nome hai, Francesco: come quello del santo d’Assisi! Come vorrei che, crescendo, ti allenassi a diventare un uomo di pace. Come lui! A rispettare la natura come lui. A dare diritto di parola a tutti e a tutto, come lui». Ha preso a narrargli i Fioretti, cominciando dalla storia del lupo di Gubbio. Io stupefatto e silente. Non solo per i contenuti della comunicazione, che non riuscivo a realizzare se rivolta effettivamente a mio figlio o anche a me, o a entrambi, ma soprattutto perché Francesco, in età da non intendere parola diversa da “mamma-pappa-papà”, sembrava comprendere alla perfezione quanto il vescovo gli comunicava, riservandogli grande attenzione. Mansueto come il lupo di Gubbio.
Ancora più esterefatto sono rimasto qualche anno dopo, quando ho letto il commento rivelatore di mons. Felice Accrocca alla “leggenda di frate lupo” che, secondo lo studioso di storia medievale, oggi arcivescovo di Benevento, non richiama affatto la “bestia feroce” che tanti vedono sotto il pelo nero, ma è la metafora della “diversità etnica che attraversa il territorio fino a lambire e introdursi in una comunità di omologhi”, che vorrebbero rifiutarla ed espellerla, mentre Francesco d’Assisi testimonia un modello inclusivo “nella convinzione che la pace consista nella convivialità delle differenze come afferma don Tonino Bello”. Una storia di migranti, insomma, come quella degli albanesi che ci avevano raggiunto poco prima. O degli africani che ci avrebbero raggiunto più in là, neri come “frate lupo”.

L’atto pubblico

È il testamento redatto e sottoscritto da don Tonino il 18 aprile 1993, a due giorni dal dies natalis. Esprime gratitudini, rende benedizioni, assegna alcuni beni materiali residuali ancora in suo possesso: poca cosa, dopo aver “distribuito tutto a tutti”, lui antesignano della “Chiesa povera e per i poveri”.
Con una chiusura folgorante: «È il giorno del Signore. Ed è bellissimo».
Come dire: «È arrivata la mia ora, e non è disperante. Anzi è bellissima».
Come dire: «Sorella morte non è devastante, per chi ha fatto della propria esistenza una ricerca di senso sfociata nel dono eucaristico».
«È il giorno del Signore. Ed è bellissimo», è il segno della realizzazione esistenziale di don Tonino Bello, il sigillo della sua santità, paradossalmente non apposto dal notaio che ha trascritto l’atto, e neppure dal prefetto della Congregazione per le cause dei santi, ma dallo stesso testatore che l’ha sottoscritto, gli occhi abbacinati dalla luce del Risorto.

Reminiscenze di un’eredità luminosa

Don Tonino desiderava il suo declino terreno come quello di Mosè che, dopo lungo peregrinare, dall’alto del monte Nebo, indica al popolo ebreo la Terra Promessa faticosamente cercata e finalmente intravista, in cui però non sarebbe riuscito ad entrare: «Mi piacerebbe un tramonto come il tuo. Lontano dalle luci della ribalta. Con un cuore ancora gonfio di passione per la vita. Con gli occhi fiammeggianti nel riverbero di cento ideali. E con il dito puntato verso la terra dei miei sogni, a indicare traguardi che forse non raggiungeremo, di una terra che produce latte e miele, dove il lupo e l’agnello, la mucca e l’orsa pascoleranno insieme, e il lattante metterà la mano nella buca dell’aspide senza avvelenarsi. Non sono sogni irraggiungibili, utopie lunghe! Sono sogni diurni, utopie calde, che si avvereranno».

La parola ultima

Le due reminiscenze narrate, indicano scenari di pace, riconciliazioni agognate, testimoniate e profetizzate. Costituiscono la sua eredità più vera e luminosa, il “tesoro nascosto nel campo” (Mt 13,44-46) che bisognerà decidersi di disseppellire perché dia ancora frutto, anziché custodirlo o celebrarlo soltanto. Metafora del regno dei cieli, che è la parola davvero ultima di don Tonino Bello.


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