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Percorsi, sviluppi e prospettive per la famiglia di Eugenio SCAGLIUSI

(testo integrale della riflessione in occasione del forum “Famiglia tra cattolici e società” promosso dall’Associazione Giovanni Paolo II di Polignano a Mare, giovedì 7 novembre 2013, Chiesa S. Maria Assunta)

 Se si volessero ripercorrere gli sviluppi del diritto di famiglia nella storia del diritto italiano non basterebbero le lezioni di un anno accademico.  Il concetto giuridico stesso di famiglia è particolarmente travagliato; certamente più di molti altri del diritto civile. Né vi è un altro ramo del diritto civile dove, più del diritto di famiglia, si avvertono le dinamiche tipicamente conflittuali della realtà sociale sottostante.
È doverosa una premessa: i fenomeni sociali precedono ed anticipano il mondo giuridico. Ed è dall’esperienza comune che si produce, nasce e si sviluppa l’esperienza giuridica.


Da molti anni è comune opinione (e corrisponde a vero) che l’idea difamiglia stia mutando e sono sempre più pressanti le istanze sociali richiedenti interventi legislativi che prendano atto di questi mutamenti. La questione è oggetto di svariati contrasti ed i percorsi di costruzione legislativa sempre particolarmente faticosi e sofferti. Per la verità, è sempre stato così. Basterebbe far riferimento all’unica definizione difamiglia presente nel nostro ordinamento giuridico, quella contenuta nell’art. 29 della Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.” L’affermazione costituì una soluzione di compromesso. Da un lato la rinuncia di  parte cattolica alla costituzionalizzazione del principio di indissolubilità del matrimonio, che però ottenne proprio la definizione del termine “famiglia”; dall'altro il superamento di alcune posizioni laiciste di matrice liberale e marxista, inizialmente contrarie o diffidenti all'inserimento della “famiglia” nel testo costituzionale ed alla sua definizione. La formula finale, con il richiamo al concetto di natura, evitava l'appiattimento sulla concezione canonistica ma rimandava all'idea di famiglia della tradizione “giusnaturalista”, caratterizzata  tra l’unione tra un uomo e una donna per la procreazione e l’educazione della prole. Ma quell'idea, attraverso tale formula, di certo in modo innovativo per l’epoca, apriva all’affermazione di nuovi rapporti familiari informati al principio di eguaglianza tra i coniugi, così incontrando i consensi di quella parte dell'Assemblea Costituente che opinava diversamente. Non a caso durante i lavori si segnalarono le dichiarazioni di giuristi cattolici dal calibro di Aldo Moro[1] e Giuseppe La Pira[2].
Da allora la scelta del Legislatore è stata quella di intervenire non sulla nozione diretta di “famiglia”, quanto sul “matrimonio”, cioè lo strumento attraverso il quale si crea una famiglia. 
La considerazione insuperabile è che ciò che chiamiamo “famiglia” corrisponde ad una idea, tradizionale, antica, immutata, risalente a centinaia e centinaia di anni, secondo cui “famiglia” è il prodotto della unione di persone di diverso sesso finalizzata alla crescita e sviluppo comune dei partecipanti. Questa idea è da sempre oggetto di costruzioni dogmatiche diverse tra la tradizione civilistica e quella canonica. Ed ancora tutt'oggi si confondono sempre più i due diversi piani operativi, soprattutto trascurando come per l'ordinamento ecclesiale il matrimonio costituisca un sacramento. Con tutto ciò che per quell'ordinamento comporta.
Da sempre ci sono stati percorsi paralleli, in materia di “famiglia”, tra i vari ordinamenti statali presenti sul territorio italiano e l'ordinamento ecclesiale. Ripercorrerne la storia di entrambi sarebbe impresa ardua e che esula dalla presente riflessione. Basteranno cenni importanti per rappresentare come, tra i due ordinamenti, quello che storicamente ha sempre avuto maggiore diffusione è quello ecclesiale.

L'ordinamento ecclesiale, infatti, aveva da sempre rivendicato la propria esclusiva competenza in materia matrimoniale. Con  il Concilio di Lione del 1274 venne configurato il matrimonio come sacramento, così giustificandone l’indissolubilità e rendendolo a tutti gli effetti res spiritualised in quanto tale soggetto alla giurisdizione della Chiesa, chiamata a regolamentarne non solo gli aspetti etici e religiosi, ma anche quelli giuridici.

Nella distinzione tra forma liturgica e sacramentale, la prima sostanziantesi nei riti e nelle cerimonie che potevano accompagnare il matrimonio (presenti anche nel diritto romano), la seconda incentrata sulla libera irrevocabile e inequivocabile manifestazione del consenso, si celebrava la frattura tra l’ordinamento civile e quello ecclesiale.
La libera manifestazione del consenso si prestò al fenomeno deimatrimoni clandestini: assenza del consenso paterno (in aperta contrapposizione a quanto richiesto dalla legislazione civile) e assenza di pubblicità, modalità spesso intrecciate tra loro, dal momento che spesso ci si sposava segretamente per sfuggire all’opposizione della famiglia. E mentre la concezione di famiglia civilisticamente mirava ad esaltare il ruolo del padre, quella della Chiesa mirava a subordinarla a quella ecclesiastica.
Sia il potere temporale che quello ecclesiastico emanarono provvedimenti per limitare la diffusione dei matrimoni clandestini. Il primo rivendicando ai padri il controllo sulle scelte matrimoniali dei figli; il secondo richiedendo specifiche forme di pubblicità. Infatti, se l’aformalità non rendeva invalido il matrimonio, poneva però difficoltà notevoli nell’accertamento dell’esistenza del vincolo qualora uno dei due sposi sollevasse contestazioni: dal momento che quei matrimoni, riconosciuti dalla Chiesa, non erano però produttivi di effetti civili, erano possibili casi di bigamia nonché  l’affermazione di fatto del divorzio. I matrimoni clandestini finivano così per mettere a rischio proprio quei caratteri di monogamia e di indissolubilità voluti dalla Chiesa. Fu in base a queste considerazioni, nonché per fronteggiare l’onda lunga della riforma protestante la quale lanciava feroci strali contro i nmatrimoni clandestini, che il Concilio di Trento, in due distinte fasi (nel 1547 e nel 1563), affrontò il problema, cercando di contemperare le diverse posizioni fino a quel momento emerse. Ne scaturirono i dodici canoni De sacramento matrimonii e i dieci Super reformatione, di cui il primo, noto con il nome di Tametsi (dalla parola iniziale), era rivolto ai matrimoni clandestini, ma in verità, più in generale, a dettare regole destinate a disciplinare l’intera celebrazione. Vi si ribadiva la sacramentalità del matrimonio, monogamico e indissolubile, di cui la Chiesa aveva competenza esclusiva per ciò che riguardava le cause matrimoniali, gli impedimenti, le dispense e la separazione. Il Tametsi imponeva che la celebrazione avvenisse in facie ecclesiae, ossia alla presenza del ‘‘proprio parroco’’ o di un suo delegato (che interrogava i nubendi circa la loro volontà di congiungersi in sacramento e benediceva poi gli sposi, dopo aver recitato la formula di rito ego vos in matrimonium coniugo in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti) e di almeno due testimoni; che fosse preceduta dalle pubblicazioni (i banni, fatti dal parroco degli sposi in tre successivi giorni di festa durante le messi solenni) e seguita dalla registrazione.
Ciò non pose fine ai dubbi ed anzi registrò molti problemi applicativi, anche perché la sua obbligatorietà fu subordinata alla promulgazione nelle singole parrocchie. Solo con il  decreto Ne temere, entrato in vigore nella Pasqua del 1908, papa Pio X lo rese obbligatorio per tutta la Chiesa.

Per quanto attiene all’ordinamento civile, la frammentazione geo-politica dell’Italia comportò un proliferare di testi ed una molteplicità di soluzioni normative. Sostanzialmente la disciplina organica del diritto di famiglia vide la luce con la rivoluzione francese ed il successivo processo costituente che interessò l’intera Europa.

In Italia lo Statuto Albertino (1948), che per oltre un secolo ha rappresentato la costituzione del Regno d’Italia, ignorava del tutto la famiglia. Lo stato liberale, pur tutelando la famiglia, l’aveva relegata nel codice civile (1865), valorizzando in essa solo gli aspetti patrimoniali derivanti dal matrimonio, che segnarono il fondamento della famiglia borghese a partire dal codice napoleonico, al quale si ispirarono tutte le codificazioni europee dell’ottocento.

Il regime fascista aveva invece adottato una concezione pubblicistica e istituzionalistica della famiglia, ma asservendola ai fini propri dello Stato, arrivando al punto di prevedere il dovere dei genitori di educare ed istruire la prole, oltre che in base ai “principi della morale”, in conformità al “sentimento nazionale fascista “ (art. 147 del codice del 1942 nel testo originario!).
La Costituzione Repubblicana, invece, volle distaccarsi da questi precedenti, riconoscendo la famiglia come formazione sociale originaria e primigenia rispetto allo Stato, ma al tempo stesso, trattandone nell’ambito dei “rapporti etico-sociali” insieme alla scuola, ne riconobbero le fondamentali e peculiari funzioni per la promozione e lo sviluppo della persona umana.
Nel periodo antecedente allo Statuto Albertino, nonostante con la rivoluzione francese il legislatore rivoluzionario (settembre 1792) avesse secolarizzato gli atti dello stato civile (nascita, matrimonio, morte), sino ad allora tenuti dal clero cattolico, la prima legge in materia di famiglia si era avuta solo nel 1919. Con essa, vi fu sì l'importante novità dell'abolizione dell'autorizzazione maritale (entrata in vigore con il Codice Napoleonico del 1804); ma venne radicalizzata la condizione di inferiorità della donna rispetto all'uomo nel sistema giuridico.
Fino ad allora si possono solo raccontare la esperienza nel Regno Lombardo Veneto del 1784 che introdusse anche in Italia, come già in Austria, il matrimonio civile[3] e quella delle costituzioni estensi del 1771[4], destinate a restare in vigore nel Ducato di Modena fino all'avvento del codice civile del 1851.
Di fatto, la tendenza laicizzante si era presto esaurita e, resisi meno conflittuali i rapporti tra Stato e Chiesa, si eclissò il matrimonio civile al punto da richiamare il diritto canonico come normativa di riferimento per la disciplina di alcuni profili del matrimonio. Le nozze erano ovunque celebrate secondo le forme tridentine, anche se taluni ordinamenti, come quello piemontese (a differenza del napoletano), assicurarono il rispetto degli appartenenti a confessioni religiose diverse dalla cattolica. I casi più significativi furono il codice albertino del 1837, di stampo confessionale, in cui gli effetti civili, che il legislatore statale si limitava a regolare, derivavano direttamente dal matrimonio religioso (art. 108), ed il codice del Regno delle Due Sicilie del 1819, che introdusse un sistema cosiddetto “misto”, in cui il matrimonio celebrato secondo le formalità di diritto canonico (in facia ecclesie) era produttivo di effetti civili solo in seguito ad un’attività dell’ordinamento statale[5].
Con l’avvento dello Stato nazionale, si procedeva anche verso l’unificazione legislativa.
Si avviò una fase di reintroduzione del matrimonio civile in netto distacco con le opzioni pre-unitarie, imponendone la celebrazione nella casa comunale, innanzi all’ufficiale di stato civile del comune dove uno degli sposi avesse la residenza o il domicilio e davanti a due testimoni. Ma si notò subito come vi fosse un’alta percentuale di matrimoni celebrati solo in Chiesa, dimostrazione d’un evidente fallimento della politica familiare perseguita e per la quale non vi era la obbligatorietà della precedenza della celebrazione civile rispetto a quella religiosa. Le conseguenze erano funeste: incertezza sui vincoli matrimoniali, mancato riconoscimento dello status di figli legittimi ai nati da siffatti matrimoni, possibilità di sciogliere il vincolo senza alcun controllo da parte dello Stato. Fu proprio in ragione di quest’ultima considerazione che la Chiesa, dopo aver aspramente combattuto l’introduzione del matrimonio civile e le sue premesse teoriche, emanò un documento ufficiale all’indomani dell’entrata in vigore del codice in cui si invitava il clero a favorire la nuova istituzione per assicurare, in qualche modo, l’indissolubilità del vincolo, che quantomeno l’ordinamento civile garantiva.
Solo con il Concordato del 1929 si pose fine al mai sopito dibattito sulla necessità di introdurre l’obbligatorietà della precedenza del rito civile: si riconobbe al matrimonio canonico, trascritto nei registri di stato civile e sottoposto alla giurisdizione della Chiesa per quanto concerneva la validità del vincolo, la stessa funzione di quello civile.

Questa lunga premessa storico – giuridica si è resa necessaria perché si possa proporre la prima importante riflessione. 

Che piaccia o no, in Italia, molto più che in altri Paesi, ogni considerazione, quale che sia, che riguardi il tema della famiglia, non può non tener conto della premessa stessa, cioè della presenza millenaria di due (e civilisticamente anche più d’uno!) distinti ordinamenti giuridici. Uno dei due, quello ecclesiale, nel corso della storia si è particolarmente diffuso sia per la sua specifica caratterizzazione spirituale, sia (proprio in Italia) per la centralità (non solo simbolica) della città di Roma nella predicazione evangelica degli Apostoli e del primo successore di Cristo, Pietro.

Dunque, non serve lamentarsi di quello che ormai è definito “sfamiglio”, lo sfascio della famiglia. Piuttosto occorre riflettere se e perché la specificità spirituale dell’istituto della famiglia interessi sempre meno. In relazione alla considerazione iniziale, secondo la quale i fenomeni sociali precedono ed anticipano il mondo giuridico, si deve evidentemente ritenere che le resistenze sociali in favore della concezione della famiglia tradizionale, rispetto ai mutamenti, sono più deboli. Emerge, allora, come il ruolo dei cattolici sia di straordinaria importanza: a loro compete l’animazione della opinione sociale.
Senza proclami di nuove crociate, urge che i cattolici acquisiscano le giuste competenze affinché, crescendo e fortificandosi nei valori di riferimento, sappiano darne testimonianza nel mondo sociale nel quale vivono ed operano.

La seconda riflessione muove dalla classica definizione ciceroniana[6]secondo cui “…la prima forma di società si realizza nell’unione matrimoniale; la seconda, nella prole, e quindi la casa comune e la comunanza di tutto. Questo è il fondamento della città e come il vivaio della Repubblica…”.

I più recenti documenti della Chiesa, non ultima la Familiaris consortio, riprendono questa originaria impostazione attribuendo alla famiglia il ruolo di “prima cellula della società”.

Si tratta di due concetti che esprimono – in maniera solo formalmente diversa – l’idea di naturalità della famiglia confermata dalla nostra Costituzione. Soprattutto riconoscono, nel loro senso più profondo, come il vivere in comune, la socialità, costituisca il destino più profondo della persona umana.
Ancora una volta emerge come alla famiglia ed al suo principale protagonista, l’uomo, spetta l’animazione del mondo sociale nel quale sono presenti, ne sono parte integrante, totalmente inseriti, vivono ed operano. E se oggi, come tutti abbiamo ormai tristemente compreso, non solo l’economia e la finanza, ma finanche il senso dello “stato” e della “politica” sono in crisi, sono malati, è molto probabile che la vera causa della malattia rinvenga da altra – ben più grave – che colpisce quella originaria cellula: dalla famiglia e, dunque, dall’uomo, il suo principale protagonista. Per esso non v’è altra cura se non la promozione di una ricerca costante ed incessante di un nuovo umanesimo che miri, sotto ogni aspetto, alla salvaguardia della persona umana e della sua dignità. 
I fenomeni di trasformazione sociale che riguardano la famiglia negli ultimi decenni trovano ispirazione in un’ansia, in uno spirito liberista, che mina le radici dell’uomo allontanandolo dalla vita stessa, fino quasi a rivendicare una assoluta e totale estraneità da essa e da ciò che la vita stessa comporta nella propria interiorità. Un’ansia che sul piano morale, riducendo doveri e responsabilità, annientando ogni anelito spirituale, esalta quell’etica liberista che conduce l’uomo a distruggere proprio i centri vitali; primo tra tutti quello essenziale e primario della famiglia.

La terza riflessione è quella conclusiva.

Poiché non serve piangersi addosso, partendo sempre dalla premessa iniziale, quella secondo cui i fenomeni sociali precedono ed anticipano il mondo giuridico, occorre partecipare attivamente al dibattito sociale che genera quello giuridico.

Vi sono fenomeni recenti che alimentano un vivace dibattito intorno famiglia. Tra gli altri, il fenomeno delle famiglie allargate o ricomposte; quello delle coppie di fatto o le mere convivenze; il fenomeno della diffusione di modelli estranei alla nostra cultura e tradizione; il fenomeno della procreazione assistita. Non serve ignorare l’esistenza di questi fenomeni. Serve individuare soluzioni. Piuttosto che indignarsi per le istanze destinate a conferire validità giuridica ad esigenze limitate e del tutto particolaristiche, conseguenza di quell’etica liberista cui su si accennava, converrebbe contribuire alla ricerca delle soluzioni, anche giuridiche, più idonee e corrette, sempre in linea e coerenti con il principio della dignità della persona umana. Quali esse siano è compito non riservato ai tecnici o ai giuristi, ma a tutti noi. Compito che essenzialmente va ricercato nel rendere attuale – e dunque compatibile con quei nuovi fenomeni e nuove esigenze – il concetto tradizionale di famiglia e che verte sulla sua stessa naturalità.
Poiché si tratta di illuminare il difficile percorso verso la regolamentazione giuridica più corretta possibile di quei nuovi fenomeni ed istanze, si presenta valido l’indirizzo metodologico proposto, per questa ricerca, da due illustri giuristi.
Il primo è Giovanni Battista Funaioli, che nel 1936 richiamava l’importanza della “tradizione” quale “…unica e suprema garanzia al mutar delle leggi laddove ogni brusca variazione è pericolosa: e soprattutto nell’istituto familiare, statico per natura, siccome più di ogni altro perenne, nel mutevole ritmo della vita sociale e dei suoi ordinamenti…”[7]. La famiglia è sì naturalmente statica; ma per ciò solo destinata a durare ai mutamenti sociali più disparati, come la storia stessa dell’umanità insegna.
Ancora più intensa la riflessione proposta dal contemporaneo Francesco D’Agostino, che affida alla filosofia della famiglia (congiuntamente al diritto di famiglia!) la riflessione “…su come il principio di famiglia resti di principio irriducibile ad ogni sua epifania culturale e chieda anzi a tutte le culture di essere difeso e promosso non attraverso un conservatorismo cieco ed ottuso di forme chiuse,  ma attraverso continui, e sempre nuovi, sforzi di attualizzazione storica...”[8].
Questo sforzo culturale, questo dinamismo formativo, compete soprattutto a coloro che, da cattolici, credono veramente che l’avvenire della società e della umanità passi attraverso la valorizzazione della famiglia e della sua entità.

[1] “Dichiarando che la famiglia è una società naturale si intende stabilire che la famiglia ha una sua sfera di ordinamento autonomo nei confronti dello Stato, il quale, quando interviene, si trova di fronte a una realtà che, non può menomare né mutare”
[2] “Con l’espressione ‘società naturale’ si intende un ordinamento di diritto naturale che esige una costituzione e una finalità secondo il tipo di organizzazione familiare”
[3] L'art. 2, dell'editto 17.09.1784) così recitava: “Sarà libero a chiunque di fare un Contratto di Matrimonio, a riserva delle Persone, che sono dichiarate inabili a farlo”. In linea con la politica giurisdizionalista, l’editto accoglieva gli insegnamenti della religione cattolica quali valori spirituali cui il matrimonio si doveva ispirare, ma avocava allo Stato la completa disciplina dello stesso, sia formalmente che sostanzialmente e processualmente.
[4] Le costituzioni colpivano il matrimonio di disparaggio, ossia contratto fra persone appartenenti a classi sociali diverse, senza il consenso dei genitori. Diseredazione, esclusione dai diritti successori, perdita di fedecommessi e delle prerogative della nobiltà erano le sanzioni comminate ai figli ribelli, mentre pene afflittive erano disposte nei confronti dei genitori di vile condizione che avessero concorso “coll’opera, col consiglio, od anche con la semplice connivenza” ad agevolare matrimoni tra i propri figli e soggetti di rango più elevato (art. 9).
[5]  Si stabiliva la obbligatorietà delle formalità civili precedenti (le pubblicazioni affisse al comune del domicilio degli sposi per 15 giorni) e successive al matrimonio (l’obbligo del parroco di inviare una copia dell’atto all’ufficiale di stato civile), a differenza di quanto avvenne in altri ordinamenti, come ad esempio nel codice parmense del 1820, dove l’inosservanza di complesse procedure civili non incideva sulla validità del vincolo matrimoniale.
[6] Cicerone, De officiis, 17. 53-54,“…Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae…”
[7] FUNAIOLI Giovanni Battista, L’evoluzione giuridica della famiglia e il suo avvenire al lume della Costituzione, Frenze, 1951, 139.
[8] D’AGOSTINO Francesco, La verità della famiglia, in Iustitia, 1991, 40.


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