Uccisa a 23 anni da uno stalker, protagonista di un documetario premiato alla Festa del Cinema di Roma, Santa Scorese è riconosciuta come una delle prime vittime di stalking in Italia. La sua storia.
Rosa Maria Scorese, sorella di Santa, protagonista del film documentario Santa Subito di Alessandro Piva, che ha vinto il premio del pubblico all’ultima Festa del Cinema di Roma, ancora non ci crede: «Sono rimasta sorpresa, e la cosa mi ha fatto riflettere perché se un premio viene dal pubblico significa che passa un messaggio importante, oppure che c’è bisogno di interrogarsi e guardare da vicino tematiche che oggi più che mai ci stanno scivolando addosso». Niente di più vero. Quando nel 1991 Santa, a soli 23 anni, è stata uccisa da uno stalker, un uomo che non conosceva, di violenza sulle donne si parlava poco. Oggi siamo abituati a un femminicidio ogni 72 ore. Storie che si perdono nelle cronache. «Prima mi immedesimavo, ora mi sento quasi in colpa per non riuscire a identificare le vittime. Sono contenta che ci si sia fermati a pensare a Santa, apripista per quelle venute dopo».
DOMANDA. Oggi c'è più sensibilità sull’argomento?
RISPOSTA. Direi più consapevolezza. La gente si sta rendendo conto della gravità del fenomeno. La presa di coscienza delle donne di oggi aumenta in modo esponenziale questi delitti, perché quando le donne capiscono di potersi autoderteminare certi uomini sono sempre piu imbestialiti.
Resta sempre una sottocultura di base.
Alla base dovrebbe esserci un lento cambiamento culturale, a partire dai bambini piccoli, un processo a lungo termine. Servono ascolto, accoglienza e formazione di tutti quelli che possono essere accanto alle donne, mai sottovalutare un atteggiamento, un bisogno. Da insegnante ci credo molto.
Che età hanno i suoi bambini?
Dai sei ai dieci anni, e si portano dietro già degli stereotipi, non solo da casa ma a volte anche dalla scuola dell’infanzia. Quest’anno ho una prima e la conquista più importante, finora, è stata quella di far dire al capofila o alla capofila: «Attenti e attente, allineati e allineate». Sembra una fesseria ma non lo è, il linguaggio conta.
Santa aveva denunciato il suo stalker, nessuno vi ha aiutati?
All’epoca il reato di molestie era considerato reato contro la morale e non contro la persona. Si faceva spallucce. Noi scortavamo sempre Santa, così come i suoi amici. Ad aiutarci in modo informale solo alcune pattuglie della polizia, dato che papà era polizotto in tribunale. Dopo la prima aggressione, nel febbraio dell’89, ci presentammo tutti e quattro in tribunale. Due magistrati dissero: «Piccolina com’è, se avesse voluto farle del male gliel’avrebbe già fatto. E poi mica possiamo metterle la scorta». Parole lapidarie, rimaste scolpite nella mia mente.
È vero che non si conoscevano?
Sì, era uno che oggi definiremmo uno stalker, un cacciatore che aveva puntato la sua preda. Era ossessionato dalle donne che avevano qualcosa a che fare con la fede e con Dio, ma di Santa non poteva sapere, anche se all’epoca si parlò e si scrisse erroneamente di delitto passionale e di un rifiuto da parte di lei.
Ha avuto una pena adeguata?
No, ha scontato solo dieci anni in un ospedale psichiatrico giudiziario. È stato dichiarato incapace di intendere e di volere al momento del fatto. Noi fino al giorno prima del delitto ci eravamo rivolti al Servizio di igiene mentale perché gli praticassero un Tso, ma nessuno si è preso cura di lui. Dopo l’assassinio la perizia psichiatrica ha dimostrato che non aveva responsabilità, ma non ha smesso di compiere azioni persecutorie nei confronti della nostra famiglia.
In che modo?
Scriveva lettere a firma sua o a firma del figlio di Dio, come si definiva, ipotizzando un risarcimento attuando teorie assurde, tipo profanando la tomba di Santa, prendendo un osso, fecondando me servendosi di mia madre. Scrisse anche a Umberto Galimberti, firmandosi Santa dal cimitero di Palo del Colle, e la pubblicazione gonfiò il suo ego già tronfio.
Come facevano queste lettere a uscire?
Ce lo chiediamo ancora oggi. Dopo essere stato affidato a una struttura protetta, dove veniva controllata la terapia farmacologica (ma di fatto era libero di frequentare parrocchie, cinema parrocchiali e di avere il pc), continuava a sapere di noi e della divulgazione della storia di Santa. Ora è libero, dopo che uno psichiatra ha dichiarato, lavandosene bene le mani, che non risultava più essere pericoloso a livello sociale. Eppure, sei mesi prima, gli erano state rinforzate le misure di sicurezza.
Ha mai dimostrato un segno di pentimento verso di voi?
Lo ha dimostrato con quelle lettere, follia nella follia. Non è una persona in equilibrio, sarebbe comunque difficile credere a un pentimento in casi così patologici.
Non bisognerebbe mai cambiare la propria vita per colpa di un qualcunaltro, ma Santa ci ha mai pensato?
La sua vita era cambiata, basti pensare che non frequentava tutti i corsi all’università e quando si ritrovava davanti a un professore si sentiva dire: «Meriterebbe 30 ma non l’ho vista alle lezioni quindi le metto 28», umiliante e frustrante. Lei aveva deciso che per un periodo sarebbe andata a Bologna, dalle Missionarie dell’Immacolata di Padre Kolbe, dove intendeva cominciare un periodo di prova per capire cosa fare della sua vita, ma le Missionarie se lo sono ritrovato lì, prima che Santa partisse. Così non si è più spostata.
Che progetti aveva Santa per la sua vita?
Forse si sarebbe consacrata, ma non c’è certezza assoluta, forse sarebbe rimasta una laica impegnatissima, o un missionaria, si sa solo che aveva fatto una scelta di fede importante. Era innamorata di Dio, aveva come modello Maria, e lasciato diari che all’inizio volevo bruciare perché mi sembrava di violare la sua privacy, ma che poi sono serviti per l’apertura del processo di beatificazione per presunto martirio in odio della fede.
Il film è dedicato a «coloro che sopravvivono». Come si sopravvive?
Non se ne esce, ognuno poi lo vive a modo proprio. Non c’era aiuto da parte di psicologi, noi abbiamo fatto una sorta di terapia per conto nostro, stretti dall’amore della famiglia e dal supporto grande degli amici. Io sentivo di dover portare avanti gli ideali di vita che mia sorella sosteneva, senza pensare di essere lei o di sostituirmi a lei, per un fatto di morale, di giustizia verso gli altri.
E i vostri genitori?
Mio padre sentirà sempre il senso di colpa per non essere riuscito a salvarla, lui che era un servitore dello Stato e che proteggeva anche i figli degli altri, mia madre ha avuto una reazione di rabbia, che solo una madre può provare. Il tempo lenisce, ma a volte mi capita di incontrare gli ex compagni di liceo di Santa e penso: «Quando vado a casa glielo dico», poi mi fermo e realizzo. La vita subisce una sostanziale sterzata che non lascia scampo, e fa guardare le cose in un’ottica diversa.
A parte il film è impegnata in altri progetti?
Collaboro con i centri antiviolenza del territorio pugliese, si fa informazione e sostegno alle famiglie, ma amo anche lavorare con i ragazzi delle parrocchie perché la scelta di Santa era stata quella di una vita dedicata a Dio. Nel suo ultimo biglietto ha scritto al sacerdote che la seguiva: «Qualunque cosa mi succeda io ho scelto Dio». Nessuna rassegnazione, sempre la certezza che ci si possa spendere per ideali grandi, anche andando controcorrente.
Qual è la prima cosa che le viene in mente quando la pensa?
La coerenza, la forza, la volitività, la vivacità intellettiva, il suo essere disponibile, il sorriso, e la gioia. Santa era l’immagine della gioia.
Com’era il vostro rapporto tra sorelle?
Simbiotico, molto intimo e di grande condivisione, abbiamo vissuto più o meno le stesse esperienze, anche se io ero più farfallina, più leggera, e lei quella che approfondiva sempre. Classe ’68, portava questo marchio addosso che la rispecchiava in pieno. Era una combattente, una donna libera.
FONTE:Lettere Donna
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