QUINDICI anni fa l'attentato in cui morirono diciannove
italiani
Esistono i ricordi. Ed esistono poi schegge di memoria che penetrano nell’anima
provocando dolore ogni qual volta si ripresentano. Questa è la sensazione che
ricorre spesso nei sopravvissuti alle stragi. Come quella di Nassiriya, in
Iraq, impressa nell’immaginario collettivo degli italiani.
Era la mattina del 12 novembre 2003, quattordici anni
fa, quando un camion cisterna con a bordo tra i 150 e i 350 chili di esplosivo
si lancia su due palazzine in cui risiedono carabinieri e militari
italianidel contingente dell’operazione “Antica Babilonia”. L’attacco
kamikaze dei terroristi islamici è devastante: dell’edificio rimane un’immensa
nuvola di fumo nero, il suono delle urla e delle sirene è asfissiante, le
macchie di sangue sul selciato sono la traccia della strage. Nassiriya è
un inferno.
Il bilancio
Alla fine di una giornata convulsa, che spinge l’Italia
davanti alle tv e alle radio per ricevere aggiornamenti, il bilancio è tragico:
muoiono subito dodici carabinieri, quattro soldati dell’esercito e due civili.
I feriti sono venti: quindici carabinieri, quattro militari e un civile. Alla
fine la conta delle vittime italiane salirà a diciannove. Nel luogo
dell’esplosione resta soltanto uno spaventoso cratere. I militari italiani sono
sul posto per operazioni non di combattimento, bensì garantire il ripristino
delle condizioni di sicurezza e vivibilità della zona. È per questo che la base
si trova in centro città, nel cuore delle attività sociali.
Nei giorni successivi all’attentato, in Italia è il
momento del lutto. Le salme tornano in patria per i funerali, che si terranno
il 18 novembre 2013. Insieme ai resti dei caduti, rientrano anche i feriti. Le
più alte cariche dello Stato vanno a trovarli in ospedale, le foto immortalano
i volti consunti, provati. Dietro gli sguardi, sembrano leggersi ancora i fotogrammi di
quanto avvenuto a Nassiriya.
Il racconto
Quei fotogrammi si fanno racconto quando il comprensibile
riserbo si scioglie. Nel 2013, a dieci anni dall’attentato, il luogotenente dei
carabinieri Benedetto Salvino, originario di Capaci, spiega a Il
Sito di Sicilia che ci fu “un boato tremendo, pazzesco”. E ancora:
“Sono volati via le porte, gli infissi, i vetri delle finestre, i computer,
mobili, suppellettili, tutto insomma. Polvere e fumo, nonostante fossimo a
circa due-trecento metri dall’esplosione. Ma il mio primo pensiero non fu la
bomba, pensavo fossimo vittime di un attacco con razzi controcarro ed armi
automatiche”.
Giunto sul luogo dell’attentato, Salvino parla di una “scena
apocalittica”. “C’era tanta gente che urlava, e poi i pompieri, le ambulanza,
gli americani che accorrevano e i nostri che cercavano tra le macerie e le
lamiere - spiega -. Ovunque pezzi di muratura, sangue e olio di motore, parti
di veicoli e brandelli umani, armi distrutte e sparse sul terreno, oggetti
personali, parti di equipaggiamento, insomma, uno spettacolo raccapricciante”.
Salvino, nonostante una ferita al braccio, si mise a
disposizione dei soccorritori per l’identificazione dei caduti. Ma dopo diverse
ore, il medico gli impose di fermarsi per la gravità del taglio sul
braccio. La sua dedizione gli valse, nel 2012, la medaglia d’oro di “vittima
del terrorismo” da parte della presidenza della Repubblica.
Come lui, altri militari hanno ricevuto riconoscimenti
istituzionali. Le gesta di coraggio sono lo sfondo eroico di uno
scenario listato a lutto. In tal senso va il ricordo di Marco Pinna,
appuntato scelto dei carabinieri, schiacciato ma non seppellito dalle macerie
dell’edificio deflagrato. Con una gamba lacerata fino all’osso, restando desto
riesce ad aiutare alcuni feriti. “Sei in piedi, puoi fare qualcosa e lo
fai: questo è l’istinto dell’uomo”, spiegava a Vanity
Fair nel decennale della strage.
Terrore indelebile
Ma oltre ai riconoscimenti, c’è anche altro. C’è il terrore
che resta indelebile. Ed ha un nome:disturbo post-traumatico da stress. Ne
parla a ViceNews Rocco
Bozzo, altro reduce di Nassiriya. Racconta che i sintomi compaiono non da
subito e che la situazione peggiora drasticamente, anche se c’è difficoltà ad
accettarlo, non fosse altro che per la paura di perdere il posto di lavoro.
“Cambia il rapporto con la moglie, con i figli - spiega
l’uomo -. Di notte ti svegli di soprassalto, diventi facilmente irritabile,
certi odori sono come pugni nello stomaco, senti il bisogno di stare da solo,
la necessità di sentire i colleghi, solo con loro ti capisci”.
Il filo rosso con l'attualità
Mentre i familiari delle vittime si caricavano sulle spalle
il fardello di sopravvivere alla morte di un caro e i sopravvissuti convivevano
con questi sintomi distruttivi, in Italia negli anni sono state aperte due
inchieste su quei fatti. Una delle due ha individuato in Abu Musab
al-Zarqawi, ritenuto da molti il fondatore dell’Isis, la mente dell’attentato.
Insieme a lui, ucciso nel 2006 da un bombardamento congiunto statunitense e
giordano in Iraq, furono identificati altri cinque terroristidietro la
strage di italiani a Nassiriya.
Uno dei nomi finiti nell’inchiesta è poi tornato d’attualità
nell’agosto scorso. È quello dell’imam Abdelbaki Es Satty, considerato
leader della cellula jihadista di Barcellona che ha compiuto il
recente attentato sulle Ramblas. Secondo quanto riporta il quotidiano
spagnolo El Periodico, "una fotocopia del suo documento di identità
venne rinvenuta in casa di Mohamed Mrabet Fhasi”, il presunto capo della
cellula di terroristi di Al Qaida che reclutò l’algerino Belgacem Bellil,
il terrorista che ha provocato la morte dei 19 italiani e 9 iracheni a
Nassiriya nel 2003.
Ecco allora che Nassiriya si intreccia con l’attualità. La
strage degli italiani non è solo un ricordo. È anche un inferno che si
portano dentro i sopravvissuti, un fardello di dolore per i familiari delle
vittime. Ed anche un’avvisaglia, così lontana e così vicina, di un clima di
panico costante che si respira oggi nelle città occidentali.
FEDERICO CENCI
Fonte: In Terris
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