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Educando alla Legalità - le conclusioni dell'Avv. Eugenio SCAGLUISI -




È complicato pensare a “concludere” un incontro come questo. Soprattutto perché non mi pare proprio che un argomento del genere possa essere “concluso”. Tutt'altro. Le riflessioni che abbiamo ascoltato necessitano di approfondimenti, di sviluppi, di ulteriori confronti. Tra l'altro le conclusioni che si possono tirare non possono essere certamente di carattere “tecnico-giuridico”, ma prevalentemente “sociologico” ed “etico”.
Ci provo, segnalando subito come immagino abbiate notato che tutti i relatori sono partiti dalla difficoltà di limitare il tema. Hanno usato l'espressione: “Di cosa parliamo?” Parliamo certamente di un disagio giovanile. Ma mi pare di poter cogliere, da tutti gli interventi, un elemento importante, che faccio mio e vi propongo. Esiste una stretta correlazione, un sottile margine, una difficoltà del discrimine, tra almeno quattro diversi fenomeni: la “male” educazione; il bullismo; la illegalità; la illiceità.
Tutto questo prescindendo da qualsiasi indagine su quello che noi avvocati chiamiamo “elemento psicologico” o dalla “punibilità” di una condotta. Condivido in pieno la considerazione della collega avvocato Masi. Spesso si delinque per divertimento. Nessuno, però, pone attenzione o riflette adeguatamente sulle conseguenze potenzialmente successive, dunque sulla complessiva educazione di un ragazzo, di azioni che effettivamente nascono per puro divertimento. Un esempio è costituito dal gessetto che i ragazzi si lanciano a scuola. Lo abbiamo fatto tutti. Sicuramente per “gioco”. Senza mai pensare alle conseguenze nella ipotesi in cui quel gessetto finisca nell'occhio di un amico, procurando una lesione. Per non arrivare alle conseguenze delle pietre scagliate contro una bottiglia, non certo con la volontà di colpire l'amico o prevedendo l'ipotesi che qualche vetro possa colpirlo. Allora la mia considerazione preliminare, quasi banale, è che non è possibile occuparsi di individuare rimedi alle illegalità – o peggio ancora alle illiceità – senza preliminarmente occuparsi di individuare rimedi alla maleducazione. Senza, cioè, investire in “educazione”.
Condivido, dunque, in pieno la preoccupazione della dott.ssa Potito del “cosa fare” dinanzi a fenomeni di illegalità o comprendo anche il disagio suo, come di tutti gli operatori di giustizia. Perché se c'è un reato, certo la “responsabilità” di chi deve comunque preoccuparsi del recupero del giovane che ha sbagliato è maggiore! Ha ragione la dott.ssa Potito quando insiste nel sottolineare come “...il minore è una risorsa per la società...”. Dunque, massimo deve essere lo sforzo per recuperarlo.
Non è facile individuare i rimedi. Ne ho appuntati cinque, sicuramente correlati tra loro. Sicuramente ve ne sono altri. Ve li propongo.
Il primo, di carattere generale, credo li ricomprenda tutti. Occorre investire nella complessiva crescita culturale dei nostri ragazzi.
Il secondo, strettamente collegato al primo. Occorre prestare particolare attenzione ai modelli di riferimento. Si è fatto cenno anche ai moderni strumenti di comunicazione, utilissimi ma anche potenzialmente pericolosi laddove non se ne faccio uso attento e responsabile.
Il terzo. È dovere di noi genitori non avallare comportamenti che, a livello educativo, possono essere pericolosissimi per le loro conseguenze. Mi riferisco ai comportamenti sottesi da due espressioni dialettali, tipiche polignanesi: “Ehi, non ha fatto niente”. Oppure “Dagliele!”. Entrambe riferite a due diverse reazioni, opposte ma ugualmente pericolose se non accompagnate da una seria capacità di spiegare il fenomeno o l'azione critica e le sue conseguenze.
Il quarto è riferito all'espressione utilizzata dalla stessa dott.ssa Potito: “Occhio alle famiglie”. Impossibile pensare di “educare” senza pensare a riscoprire il ruolo primario della famiglia, con i suoi valori e le sue regole. Quasi sempre occorre agire (“educare”) sulle famiglie, prima ancora che su i ragazzi.
Ultima considerazione. Impossibile pensare ad educare senza sensibilizzare i più giovani, gli studenti, secondo programmi di apprendimento specifici per età, al senso della “comunità”. E significa “tutto”. Non è solo il richiamo al “senso civico”, ma ben altro. È al tempo stesso richiamo al senso dello “Stato” e delle istituzioni, della cosa pubblica come “cosa comune”, come patrimonio di tutti e di ciascuno; è richiamo alle virtù civiche della lealtà e della solidarietà. Solo riscoprendo la più alta nozione e qualificazione del senso dello “Stato”, che racchiude in sé tutte le altre istituzioni, compreso quelle che oggi chiamiamo “agenzie educative”, è possibile crescere nel rispetto e nella convivenza reciproca. E questo vale sia per i più piccoli che per i più grandi, sia per la correzione dei fenomeni di “maleducazione” che per quelli di “illegalità”.
Grazie agli organizzatori ed a voi tutti per la partecipazione e l'attenzione.

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